SECONDA PARTE
APPENA DOPO QUEL MEZZODÌ
Misericordia
« Il maiale col bastone! » urlava il matto dalle scale. «E' vicino, è vicino. »
« Zitto » sussurrò Poline.
Così Nunù le andò accanto e pian piano spinse la testa tra le pietre. Insieme guardarono dal foro. Il maiale e sua figlia erano fermi ai piedi della torre. Lui era chino su di lei e le parlava.
« Il maiale col bastone entra» mormorò Nunù e si nascose il viso fra le mani, poi si sedette accanto alle leve di ferro.
« Zitto » disse la zoppa mentre lo afferrava per il bavero della giacca e lo riportava su. Rimase con le dita che si aggrappavano a uno spigolo del muro, mentre il maiale là sotto continuava a grugnire.
Poline si voltò un istante verso Nunù. Il matto aveva gli occhi spalancati e verdi, grandissimi. La barba rossastra e riccia era sporcata di fili bianchi che si drizzavano da ogni parte. Teneva le mani sul naso, quasi a grattarselo, e il suo respiro era ancora affannoso. Si rivolse alla zoppa con un'occhiata, poi tornò a fissare la piazza.
« Ascolta, Nunù » fece di nuovo lei.
Il maiale bisbigliava. Era quasi in ginocchio, la pancia riversa sulla gamba piegata. Le guance molli e flaccide salivano e scendevano mentre la bocca lucida si agitava come masticasse. « Colette, vai a dirlo a tua madre » il maiale ordinò e la bambina corse verso il centro della piazza. In un attimo entrò nella casa rossa del sindaco.
Fu allora che la zoppa si tolse dal foro. E Nunù la guardò stranito. Poline si avvolse il foulard leggero al collo e andò alle scale di ferro che dalla stanza delle leve portavano al tetto della torre.
« Zoppa...» Il matto la chiamò e si premette una mano sugli occhi per la luce che lei fece entrare. Quando si girò, le ombre nella torre erano scomparse: il letto nell'angolo e anche le tele ammassate ovunque lo guardavano. Fece un passo indietro e alzò il viso al grande ingranaggio dell'orologio: lì si arrampicavano le due corde che bucavano il soffitto. « Zoppa! » gridò in quella direzione. « Zoppa...» Aspettò, ma ascoltò solo se stesso. L'eco rimbalzava e non moriva mai. « Zoppa! » disse con le gambe che già si affrettavano sulla scala di ferro, e gli stracci larghi addosso faticavano a stargli dietro.
« Ti vuoi far sentire? » Poline girò un occhio verso di lui. E continuò, in equilibrio su due coppi del tetto, con il pennello che sfiorava la tela agganciata alla cella della campana. Faceva piccoli gesti con le braccia, e il pennello era una spada agitata che colpiva la tela. « Cosa c'è? » domandò.
Nunù avanzò e appena le fu vicino adocchiò la tela: c'era la piazza disegnata, al centro Poline stava abbozzando una sagoma nera. « Chi disegni, zoppa? »
« Non toccare... » Lei camminò intorno alla cella che proteggeva la campana. Si aggrappò a una sbarra, si dondolò tirandosi verso un'altra. Arrivò fin dove il tetto piatto della torre finiva e guardò sotto. Il maiale aveva le mani sui fianchi e fissava la via della scuola, il bastone appoggiato a una gamba. « Sei bello grasso... » sussurrò, e si sporse ancora a guardare le case vecchie e consumate, la casa rossa del sindaco e quella marrone del capo dei gendarmi, così rovinate che in alcuni punti i muri erano scrostati e senza colore. Sui tetti mezzi bucati gli uccellacci neri gracchiavano e infilavano il becco dove le tegole mancavano. Il sole d'estate cuoceva ogni cosa con la sua calura.
« Nunù!» disse Poline mentre tornava indietro. «Guai a te...»
Il matto tolse in fretta il dito dalla tela. E lei subito immerse il pennello nella tavolozza, un'asse di legno ricoperta di colori. Sporcò le setole di nero e sul bianco della piazza allargò la sagoma e la fece grossa, più grossa. Da lì spuntarono quattro gambe e una coda riccia e corta.
« Il bastone! » esclamò Nunù.
« E bastone sia. » Poline disegnò una linea fine, a fianco della macchia nera. «Il sindaco maiale e il suo bastone » mormorò tra sé la zoppa e un angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso a metà. «Ecco a voi il sindaco di R., Marcel... »
Il matto applaudì con foga, ma lei gli fece segno di smettere.
« Ascolta!» La zoppa tese l'orecchio alla porticina aperta. « Hai sentito? »
Lui fece cenno di no, poi corse subito dentro la torre. Al piano di sotto il portone vibrava. La chiamò, gli occhi sbarrati.
« Zitto » farfugliò lei mentre dal tetto scendeva nella stanza delle leve.
« Aiuto! » disse il matto quando sentì bussare ancora. « Il maiale ha visto Nunù e la zoppa sul tetto. » Si toccò il naso sudato, poi la seguì.
Poline si bloccò, strofinò i pugni stretti al petto. Il cuore pareva scoppiarle. « E lui» disse e intanto si mise a scendere le scale di pietra. « Chi è? » I colpi picchiavano e il rumore del legno scosso copriva la sua voce. « Chi è? » fece lei appena arrivò in fondo. Guardò a destra, verso la porta della camera sempre chiusa, poi si avvolse nella mantella leggera. Si avvicinò. «Chi va là? » chiese. Sollevò il piede debole e fece scattare i due chiavistelli. Sollevò l'asse di legno e tirò. Dallo spiraglio entrarono luce, polvere e subito qualcuno spinse. La zoppa indietreggiò e quasi cadde.
« Non mi hanno visto, il sindaco ha appena preso la via delle botteghe. »
« Marie... »
« So che vi piacciono tanto... » Richiuse dietro di sé il portone e in un attimo piombò di fronte alla zoppa, un piccolo cesto al braccio. « Sono appena fatti. » Marie soffiò contro una mosca che le ronzava intorno. Sorrise. I suoi occhi azzurrissimi non stavano mai fermi e i capelli d'argento le incorniciavano il viso di poche rughe. Era ancora così bella, il corpo minuto e appena curvo lasciava un profumo leggero.
Poline si strofinò le mani mentre la bottegaia con due dita alzò la pezza che copriva il piccolo cesto al braccio.
« Dolci allo zucchero! » esclamò la zoppa.
« Ancora caldi, è da questa mattina che io e Sophie siamo al lavoro. Le ho detto: "Impara a cucinare come tua madre!' Domani andremo a venderli in città. » Sollevò le sopracciglia: « Nunù, dove sei? Dove ti sei cacciato, matto imbranato? »
Poline le fece strada su per i gradini stretti e ripidi.
« Nunù! »
Il matto non c'era, da nessuna parte. La zoppa salì la scaletta di ferro, allungò la testa oltre la porticina: « Nunù, vieni».
Lui era appoggiato a una sbarra della campana, le voci della piazza e il vento leggero coprivano la sua canzone.
« Matto che non sei altro, guarda...»
« No » rispose Nunù. E se ne stette girato dalla parte dove i monti si facevano altissimi e appuntiti. Non smetteva di cantare, i vestiti slabbrati svolazzavano all'aria.
« L'ha portato Marie, è un regalo... » disse lei mentre saliva di un passo.
Allora lui si voltò. « Il maiale è entrato nella torre? »
« No, è Marie. » Lo raggiunse e lo prese per la mano. «Ha una sorpresa... » Lo riportò dentro.
La bottegaia aspettava all'unica parete senza pietre di tutta la torre. Fissava i dipinti che la coprivano, uno in particolare, quello della notte che cala sul paese. Ma subito si rivolse a loro: «Vorrà dire che li mangerò io ». Scosse il cesto e i dolcetti rotolarono uno sull'altro.
Il matto si precipitò come una furia. « Lo zucchero, a Nunù lo zucchero » e le si buttò addosso, la strinse forte mentre con la mano cercava di afferrare un biscotto.
« Puzzi da fare schifo! » esclamò Marie scostandosi.
« L'acqua nel suo catino è sempre piena e chiara. » La zoppa portò un po'"del pane dolce alla bocca. Chiuse gli occhi mentre masticava e non li riaprì fin quando lo ingoiò. Solo allora vide il matto che rovistava dentro il cesto. « Sei tu il maiale Nunù!»
« Marcel è il sindaco maiale! » Pezzi dolci gli uscivano dalle labbra e finivano sui pantaloni.
Marie si sedette al tavolo marcio, si asciugò il viso: « Poline, stasera ci sarà il Consiglio, si riunirà all'ora del riposo » disse guardandola.
Nunù smise di masticare.
La zoppa si voltò verso la bottegaia. « Il Consiglio? » Le andò subito di fronte. Restò soprappensiero. «Da quanto non si riuniva? » domandò sottovoce.
Marie si accarezzava le mani, lentamente. « E' una maledizione la nostra. Dio ci ha abbandonato. Neanche la lana malata ci dà più da vivere. » Si tormentava un dito grattandolo con le unghie sporche. « Se tuo nonno vedesse... »
« Perché hanno deciso di riunirsi? »
« Marcel, qualche notte fa... è andato a chiamare il capo dei gendarmi... Ha detto che nel sonno gli era apparsa la Decisione, proprio così ha detto. »
« Quale decisione? »
« La Decisione che restituirà a R. il lustro... La Decisione, il segno di Dio che ancora ci ama, ha detto... Ne parlerà stasera al Consiglio, fino ad allora... »
Poline si portò un dito tra le labbra. Guardò la bottegaia che sorrise.
« Non temere, vi informerò quando saprò qualcosa » disse Marie.
« Il segno di Dio... » ripeté Poline.
« Così ha detto Marcel. »
« Nunù e la zoppa spiano il maiale Marcel dal tetto » biascicò il matto con la bocca piena.
« Dal tetto? »
Annuì.
« Non dovreste stare lassù! Quante volte ve l'ho detto che non vogliono vedervi sul tetto? E ti prego, Poline, mangiate il cibo e bevete solo ciò che vi portiamo io e Pierre. Niente, non mettete in bocca niente della loro roba » disse e si avvicinò alla parete senza pietre. Indicò il dipinto bianco e grigio dell'uomo dalla barba porpora appeso alla corda della campana.
« Gustave » farfugliò Marie.
« Qui aveva già i polmoni mangiati. Raccontami Marie, ti prego. »
« Raccontarti di nuovo? »
« Ti prego, raccontami di quel giorno al Consiglio. »
« Gustave, l'unico che sfidò il Consiglio... Alla morte di tua madre lui chiese la torre anche per te, come era stato per Nunù. Disse: "O morti o insieme nella torre, mai più separati. »
« E qualcuno votò lo stesso per la polvere dolce. »
Nunù il matto sollevò la testa.
« Qualcuno, sì. Ma la mano tremò anche a loro, l'unica ben salda fu quella del prete, lo ricordo bene. Tuttavia le mani non bastarono. » Si asciugò la fronte. « Da quel giorno io decisi che mai più avrei fatto parte del Consiglio. Quelle mani alzate erano croci per il cimitero. Il mio cuore non avrebbe retto un'altra volta. »
Il matto balzò in piedi e si buttò sul letto. Aprì un grosso libro e la copertina nera gli nascose il viso attento.
« Così il Consiglio stabilì che tu avresti seguito Nunù nella torre. E insieme avreste sostituito Gustave alla campana appena il vecchio se ne fosse andato per sempre. »
« Il giorno dopo il maestro delle campane mi fece entrare...»
« E lì c'era già quel matto che puzza come una capra! » Marie gridò e lui si schiacciò la pagina agli occhi.
« Prima di morire me lo chiese, me lo chiese » disse la zoppa. « Mi disse: "Dipingimi, così dalla tela controllerò che non facciate guaì. »
Marie andò con un dito al viso rossastro del vecchio, scese alla pancia che spingeva contro la camicia, poi in fondo, nell'angolo in basso a destra del dipinto. Lì lesse le parole scritte con tempera bianca: Il tempo sulle loro teste li acciuffa e li conduce. « Lo diceva prima di tirare la corda, ogni volta? »
« Ogni volta. »
Delle voci si alzarono dalla piazza. Marie corse al foro. « E' tardi, devo andarmene subito. » Afferrò la zoppa per un braccio. « Mi ordinano di non venire, ma non posso... » Raggiunsero la scalinata.
« Torna presto, ti prego Marie. »
« Verrò domani. »
Poline non la lasciava.
« Stasera il Consiglio, domani saprete della Decisione. »
Non si dissero più nulla. La zoppa aspettò che il portone si chiudesse. Poi, dopo aver incastrato l'asse di legno, portò la mano alla fronte e si grattò via il sudore che ancora non colava, attaccato come una seconda pelle lucida. « Il Consiglio, stasera » si ripeté, e il fiato le rimase tutto dentro.
Poline restò al foro quella sera e Nunù non smetteva di domandarle quando la bottegaia avrebbe svelato la Decisione, il segno di Dio. Il matto era seduto al tavolo marcio, le braccia conserte e la faccia verso il soffitto, la lampada che gli accendeva il collo venato segnato dalla voglia scura. La luce lo colpiva sulla barba, sugli zigomi appuntiti, sul ciuffo di capelli che sporgeva dalla fronte.
« Un giorno, ha detto Marie. » Gli occhi di Poline erano tutti per la notte che stava calando su R. e per lo specchio che stringeva in mano. Si incantò sul suo riflesso, una bocca dritta e sottile, il viso segnato di ombre. Il naso adunco e gli occhi grandi e neri che ancora luccicavano di minuscoli bagliori vivi, come il ciondolo al collo, la rosa d'argento con i petali consumati.
Tirò fuori l'orologio e con un dito lo aprì: « Venti minuti ancora » disse e questa volta si girò verso il matto. « E sarà l'ora del riposo... e sarà il Consiglio. »
Il matto la guardò, annuì. Scattò in piedi, in due passi le fu vicino e le sussurrò all'orecchio.
« No » disse lei.
« Sì, Nunù fa il trucco e il tempo corre » disse lui.
« Non possiamo. »
Il matto le prese il viso tra le mani. Fece sì con la testa, sì con lo sguardo, e la baciò sulla fronte. « Il tempo adesso inganna gli uomini. »
Poline sgranò gli occhi a quelle labbra così vicine. Erano carnose e morbide, mezze nascoste dai baffi rossicci. Sentì la schiena rigida, si scostò con violenza. Poi continuando a guardare il matto sollevò il coperchio dell'orologio d'argento. « Venti minuti. »
Lui sorrise e il marcio tra i denti uscì assieme al fiato di peste. « Nunù fa il trucco delle lancette » mormorò e si sfiorò la punta del naso con il pollice. Sparì, giù per le scale ripide fino al piano di sotto, nella stanza delle funi.
Poline si chinò dove passavano le corde e appena vide la fune che si muoveva gridò: «Suona allora! E che il tempo li acciuffi e li conduca... » Balzò di nuovo in piedi e strinse con forza la leva dei minuti: la sollevò di poco e controllò che gli ingranaggi camminassero. Spinse un ferro finché la lancetta grande arrivò sulle dodici. Quella piccola si spostò con lei e segnò le dieci, l'ora del riposo precisa. La zoppa si mise al foro, ma prima aprì l'orologio da tasca: in realtà mancavano ancora quindici minuti. Quindici minuti che loro avevano sottratto a R. spostando avanti il grande orologio.
« Suona! »
E le corde lì a fianco iniziarono prima a scendere, poi a salire, e la campana lassù a cantare. Uno, due e ancora uno, e via via il battito del tempo scendeva sulle case di R. che ascoltavano quell'ordine sbagliato. Le luci dietro le finestre si spensero poco dopo e i lumi della piazza finirono di essere accesi.
« Il maiale » esclamò Nunù tornando al foro e Poline cercò di tappargli la bocca.
Là sotto il sindaco si affrettava mentre cercava di infilarsi la giacca e il bastone gli cadde e anche il cappello. Sbatté il portone di casa e il suo sguardo andò in cima alla torre e di nuovo in basso, ai suoi piedi. Trotterellò verso la via delle botteghe, la pancia gli ballava e la faccia larga era una macchia pallida che spiccava nel buio debole. Tossiva e quei colpi lo costrinsero a rallentare.
Il matto rideva e un po' saltellava. « Nunù vi guarda » disse con la voce fioca e la bocca seria, e la sua fronte come quella della zoppa spinse contro lo spigolo del foro. I loro occhi andavano al maiale. Poline lo fissava, le lancette dei minuti erano spine che gli pungevano i piedi troppo lenti. Vide sua moglie uscire dalla casa rossa dopo di lui, agitava le chiavi nel portone socchiuso. Non portava più le trecce come da bambina ma i capelli biondi raccolti in cima alla testa e al posto della mantellina rossa aveva un velo azzurro intorno alle spalle. sulle scarpe sembrava volare, e danzando leggera sui ciottoli raggiunse il marito. Lo prese a braccetto e mentre ondeggiava nei suoi fianchi torniti lo guidò oltre la via delle botteghe, verso la casa delle Decisioni.
« Ah ! » strillò il matto quando vide il prete giovane affannarsi ai margini della piazza, il suo viso era rivolto al grande orologio traditore e quasi inciampava nella veste lunga e viola, troppo lunga per lui che non aveva il ventre gonfio di Padre Carl. La tunica l'aveva ereditata alla sua morte, insieme al crocifisso d'oro consumato e a una Bibbia ingiallita. Il rosario no, Padre Carl lo aveva voluto con sé nella terra, casomai anche là sotto ci fosse stato da pregare. Il prete aprì e chiuse la sua cipolla d'argento, scosse la testa e sbuffando attese qualcuno. «L'ometto! » Nunù lo indicò. Quell'uomo piccolo piccolo era fermo al lato della piazza, chino sulle ginocchia, il petto che si alzava e si abbassava per lo sforzo. D'un tratto si raddrizzò e provò a fare altri due passi, poi rallentò. Tirò fuori un fazzoletto e si tamponò la fronte.
« Il trucco prima o poi lo sconteremo » fece Poline e si voltò verso Nunù.
Il sorriso del matto scomparve.
« Sì... matto tu, e matta io che ti sto a sentire. »
Lui non riuscì a trattenersi. Rise.
« Aiutami » disse la zoppa e andò alla leva. La strinse, ci si appoggiò sopra con il corpo.
Il matto le fu dietro, si attaccò al bastone di ferro.
« Le dieci e un minuto » esclamò guardando il piccolo orologio. Poi cominciò a spingere sulla leva e lui anche, e assieme abbassarono il ferro dei minuti. La lancetta lunga tornò indietro. « Ancora uno scatto » disse la zoppa.
Lasciarono la presa e subito là in alto lei osservò il retro del grande orologio: diceva il vero, adesso.
Quella notte il portone della torre non si mosse. La zoppa era rimasta sveglia e i suoi pennelli si agitavano alla fiamma debole della lampada.
Nunù l'aveva guardata, aveva aspettato che quei campi di erba vicino al mare si colorassero di verde e viola e che il bianco della tela scomparisse del tutto. Poi era sceso lentamente, con la canzone in bocca e con i graffi nello stomaco che gli dicevano di rimanere lassù perché loro potevano arrivare all'improvviso. Ma lui quei graffi non li aveva ascoltati e si era chiuso nella sua stanza al piano di sotto, la stanza delle funi. Lì c'erano i muri sempre freschi e negli angoli dei grossi ragni che non camminavano quasi mai, tranne quando andava vicino e ci soffiava contro. I ragni erano suoi amici, diceva Nunù il matto. E alla zoppa raccontava che alcuni di loro erano colorati come le farfalle e avevano più gambe di qualsiasi uomo. Erano suoi amici perché non lo guardavano mai, rimanevano sempre con gli occhi alle pietre del muro anche se di occhi ne avevano più di cento. Laggiù c'erano persino i topi e a loro bisognava stare attenti. Quelli erano uomini che erano diventati così a furia di guardare con insistenza le altre persone. I topi lui li sentiva: camminavano sotto il letto e certe volte fuori dalla stanza, verso il buco nel portone che li portava alla piazza. Ma laggiù non c'erano solo i ragni e i topi. C'era il suo letto dove lui si stendeva e certe volte si metteva a fissare le tre corde che pendevano dall'alto e che il vento faceva oscillare. Altre volte Nunù stava tutto il tempo a leggere i libri. Quando glieli aveva dati, il maestro delle campane gli aveva confidato che la sua preferita era la storia del pirata con la spada affilatissima, il pirata che suonava il violino ai pesci del mare.
Anche Poline possedeva qualcosa del vecchio, il quaderno verde. Lo teneva nascosto sotto il letto. Glielo aveva regalato alla morte di suo padre, il giorno che lei e sua madre erano entrate nella casa gialla. E le aveva detto che l'ultima pagina la poteva riempire con il disegno che voleva. La zoppa lo aveva sfogliato con cura e quando aveva visto il ritratto della donna con il neo sopra le labbra e la pelle bianchissima aveva domandato al vecchio: « Come si chiama la tua sposa? »
« Claudine » aveva risposto lui. Non c'era più a R., un giorno era andata via.
« Come mai? » aveva chiesto. Ma l'orologiaio non aveva risposto. E Claudine adesso era nelle tele appese al muro senza pietre.
Poline quella sera le illuminò tutte. Mentre il matto dormiva nella stanza delle funi, la fiamma della lampada si stese su ognuna di loro, e le parve che quelle immagini si muovessero davvero. Allora si fermò sul quadro che stava nell'angolo in basso. Marie nel giorno del suo matrimonio stringeva Pierre impettito nella sua divisa elegante da gendarme, i fiori secchi appuntati sul cappello. Sorrideva e intorno spalancavano la bocca davanti alla sua bellezza. La piazza era felice e dal foro della torre il blu di lui e il bianco di lei erano due gigli appena fioriti. Molto dopo sarebbe nata Sophie, venne al mondo quando i capelli di Marie erano già mezzi bianchi. Sophie che della zoppa aveva paura, proprio come tutti i bambini di R. Alla torre non si avvicinavano mai perché dentro c'erano la zoppa e il matto, loro ti potevano anche uccidere e poi mangiare. La zoppa si chiamava così perché aveva una gamba sola e poi se la vedevi era un mostro con i capelli di serpi e i denti affilati come coltelli. Il matto aveva la forza di venti uomini e di notte andava a catturare i bambini che non si comportavano bene a scuola. Neanche i bambini più coraggiosi uscivano vivi dalla torre, aveva raccontato Sophie a sua madre.
Poline sorrise. Si vide con i denti affilati e le serpi per capelli. E pensò al matto che nella notte andava fuori a caccia di birbanti. Sorrise ancora e si ricordò anche di occhi curiosi e per niente spaventati. Erano dell'unica bambina che si incantasse a guardare la torre, che si avvicinasse più di tutti al grande portone. L'amica di Sophie, si chiamava Colette. Figlia di Marcel il sindaco.
La zoppa lasciò la parete senza pietre. Andò alla scaletta che portava al tetto, salì lassù. Camminò, una mano che si reggeva all'aria mentre il piede secco e curvo pestava i coppi consumati. Davanti a lei il tetto era un quadrato scuro con al centro la grossa campana nera per la notte che la colorava. Si avvicinò, le sue dita tastarono la gabbia di metallo, strinsero una sbarra e un'altra ancora. Proseguì e arrivò dove i coppi non c'erano più. Lì un muretto le graffiò lo stinco. Dopo, solo il vuoto a legare la torre e la piazza. Si bloccò e piano si accovacciò, si sedette su quelle pietre levigate, abbracciò le gambe e restò così, con il mento incastrato tra le ginocchia. Fissò in basso e il vento le disse della piazza che dormiva, delle montagne che erano un muro altissimo confuso con il cielo. Del mare, una striscia invisibile in fondo. Chiuse gli occhi, si immaginò suo padre che la chiamava « mia regina » e il maestro delle campane che si pizzicava la barba. « Papà » disse, e accarezzò il vuoto che la chiamava. Infilò una mano nella tasca e strinse il piccolo orologio, lo sfregò e quasi l'argento le fece male. Poi si alzò in piedi, guardò laggiù, i fuochi che segnavano la piazza. Allora un sorriso le allargò le labbra tese, intanto che la gamba forte la conduceva indietro, verso la campana, alla porticina arrugginita.
Poline finì il pane secco e raccolse le briciole sparse sul tavolo di legno marcio. Si bagnava la punta di un dito e con quello ci spingeva sopra, così le catturava e le appoggiava in bocca una a una. Prima di alzarsi prese l'ultimo tozzo di pagnotta e lo immerse nella ciotola: il latte lo affogò subito, lo ammorbidì con il suo colore giallognolo. E con quella poltiglia dolciastra in bocca andò a vedere la piazza.
« Quando dicono la Decisione alla zoppa e Nunù? » domandò il matto e si sfiorò il naso.
« Ci penserà Marie, prima del riposo » rispose mentre raggiungeva il muro senza pietre. Là si fermò e fissò il quadro di mezzo, il ritratto del maestro delle campane.
« E ci saranno anche la carne e i fichi secchi. »
Nunù restò in silenzio. Non fece in tempo ad annuire che il portone della torre vibrò.
Quando scesero, quei colpi cessarono.
Il matto si passava una mano dentro l'altra e le sue sopracciglia si alzavano e tornavano basse, come le corde della sua campana. Appoggiò l'orecchio al legno, poi scrollò la testa. Nessuna voce dall'altra parte. « E' Marie » disse e iniziò a sollevare l'asse.
Poline fece scattare i due chiavistelli e con lui scivolò dietro il portone che si aprì lentamente verso di loro. Subito tornò chiuso: due ombre si allungarono sul pavimento e si arrampicarono al muro. « Buongiorno » fecero.
La zoppa alzò lo sguardo ai loro cravattini, nero uno, marrone l'altro. Non andò oltre, tenne gli occhi a quel collo largo e a quel gozzo appuntito e sottile.
« Il sindaco ha chiesto di voi » disse l'ometto con la voce acuta.
Nunù le strinse un gomito.
Quando Poline fissò la faccia tonda e arrossata dell'ometto, lui indietreggiò di mezzo passo e si asciugò la fronte con le maniche della giacca logora.
« Che voi siate maledetti » disse con il respiro affannoso. « Un altro scherzo come quello dell'altra sera...» Gli occhi piccoli e neri diventarono minuscole fessure disegnate in una pallida faccia glabra. Guardò la gamba malata, poi tornò su a osservare il matto tagliato per metà dall'ombra della torre.
« Il vecchio non ti ha insegnato a tirare la corda al momento giusto? » La domanda venne dal capo dei gendarmi. Magro e minuto con la voce da caverna.
Nunù non rispose.
« Sono sicuro che te l'ha insegnato per bene » disse la divisa blu. Si tolse il cappello e la chioma riccia fuggì da ogni parte.
Poline si ricordò di quella notte di vigilia, da bambina, quando nascosta dall'angolo della casa di Marie vide la grande festa che stava per nascere. C'era l'orologiaio, Pierre il gendarme biondo e c'era lui, il gendarme piccolo con i capelli scuri e la voce grossa. Non era diverso, adesso. Solo i baffi, corti e accennati, sporcavano la bocca poco carnosa. Si muoveva a scatti, non rideva mai.
La divisa blu fece due passi avanti. Entrò nella stanza delle corde, si fermò e tirò fuori un piccolo orologio dal taschino della giacca. « Mancano cinque minuti all'ora del lavoro. »
« Facci vedere, matto » esclamò l'ometto mentre accostava il portone socchiuso.
Il capo dei gendarmi si schiacciò al muro e lanciò un'occhiata a Nunù. « Non hai capito? » Gli andò addosso e lo prese per un orecchio. Lo costrinse a entrare nella stanza delle funi. «E' così che ti aggrappi alla corda? E' così testa vuota? » E intanto gli tirava l'orecchio in su e in giù.
« Ah! » urlava il matto scalciando come un asino.
« Basta, vi prego! Non accadrà più, ho seguito il mio che era in anticipo » disse Poline e gli mostrò l'orologio d'argento.
Il capo dei gendarmi lasciò la presa e il matto cominciò a strofinarsi l'orecchio di fuoco.
« Vieni, vieni qui Nunù. » La zoppa gli premette la mano sull'orecchio e sentì la pelle bollente diventare ancora più calda. Lo accarezzò e ci soffiò sopra.
« L'orecchio di Nunù fa male! » gemeva il matto.
« Ma come sei premurosa, zoppa » fece l'ometto.
« Siete in ritardo! Vuoi che ti insegni di nuovo come si fa a suonare, testa vuota? » sbraitò il capo dei gendarmi.
Disse di no.
« Muoviti. »
« Vai, è l'ora » gli sussurrò Poline che si fece da parte con un saltello. Aveva un sorriso leggero, accarezzava la spalla di Nunù e un po' lo spingeva.
Il matto passò tra i due uomini. Si toccava il naso e il suo passo rapido alzava lo sporco da terra.
« Suona, suona adesso » disse Poline intanto che l'ometto si avvicinava alla stanza delle funi.
Allora Nunù si piegò un poco sulle gambe e con entrambe le mani afferrò la corda al centro, l'unica sciolta dalla campana e fissata al soffitto. Chiuse gli occhi e saltò, infilando al primo colpo i piedi nei nodi creati a metà delle altre due funi. Cominciò a tirare, si piegava e si allungava, ora le gambe rattrappite, ora le gambe distese. Nunù volava, il suo sedere era in fuori e in dentro, din fece il metallo in un suono sordo. E i suoi capelli si scuotevano all'aria, don gridò la campana. Din don urlò la torre di R., din don.
« Ahhhhh! » L'ometto si tappò le orecchie, poi fece qualche passo verso la porta. Anche il capo dei gendarmi cercò di uscire dalla stanza delle funi ma finì addosso a Poline e per poco non cadde. Lanciò un grido che soffocò subito.
Poline li guardò, cercavano di aprire il portone con le dita maldestre. « Campana maledetta! » disse l'ometto e trovò l'uscita, subito dietro lo seguiva la divisa blu. La luce entrò per un attimo, poi nella torre tornò l'ombra.
La zoppa fissò Nunù: le corde erano le ali che lo sollevavano, i suoi occhi sgranati balenarono per un attimo.
Il matto saltò giù e in un balzo si buttò sul letto. Afferrò il libro e la copertina marrone gli coprì il viso. «Che il tempo li acciuffi...» sghignazzò a voce alta.
« Così sia » ripeté lei saltellando sul primo gradino.
Fu solo Poline a sollevare l'asse del portone. Quando Nunù sentì bussare ancora, scappò sul tetto.
« Poline, Nunù! » diceva quella voce familiare.
La zoppa aprì il portone e il suo sguardo cadde subito sul cesto di vimini che Marie teneva premuto contro il petto.
« Aspetta, Poline » le disse la bottegaia mentre saliva alla stanza delle leve.
La zoppa si appiccicò alla sua schiena. « Aspetta, ti ho detto! »
« I fichi secchi e le soffici focacce! » gridava Nunù intanto che scendeva.
« Da quanto tempo non mangiate? »
Il matto si aggrappò al cesto.
« Un momento » sorrise Marie e arrivò al tavolo marcio. Appoggiò il cesto e Nunù gli fu addosso. La bottegaia premeva le mani sul panno come se il vento glielo volesse portar via.
« Le soffici focacce! »
Marie scoprì il cesto: traboccava dei fichi secchi e delle focacce, di un mezzo formaggio, di un pezzo di carne che spuntava dalla carta porosa. C'era anche una pagnotta di pane nero. E l'olio per la luce e il miele.
Poline guardò seria Marie. Le si avvicinò felpata.
« Marcel non ha ancora annunciato la Decisione» sussurrò la bottegaia.
Poline restò immobile. « Quando... quando lo farà? »
« Presto. Ma il Consiglio ha creduto nella visione di Marcel. Essa è davvero un segno di Dio, è il segno che aspettavamo da tempo. Il capo dei gendarmi lo ha detto a Pierre. »
« Cosa gli ha detto? »
« Mezze parole, niente sulla Decisione. Vuole essere il sindaco ad annunciarla a R.» Marie parlava a mezza voce. « In compenso gli ha detto dello scherzo dell'orologio... Dite, cosa avete fatto? Avete messo il pepe sulla coda delle lancette? »
Nunù lanciò un verso di eccitazione. « Il trucco! » strillò. Poi diventò silenzioso e si strofinò l'orecchio.
« Si stancheranno, matto che non sei altro. Vuoi la polvere dolce? »
Il matto si rabbuiò. Fece di no.
« Dovete smetterla, fanno sul serio. »
La zoppa non parlò.
Marie sistemò gli ortaggi e la frutta su una vecchia credenza accanto ai catini dell'acqua. Il resto lo appoggiò sul tavolo.
« Sono stati qui » disse Poline.
« Chi? »
« Loro, ieri. »
« Loro? »
« Il capo dei gendarmi e Didier. »
« Per il trucco dell'orologio, scommetto. »
« Per il trucco » ripeté Poline. .
Marie sbuffò. Le afferrò le mani e quasi con stizza le riempì con due tubetti di colore a olio.
« Il bianco e il nero » fece Poline a mezza voce e un po' sorrise.
« Così penserai più alle tue tele e meno a muovere l'orologio. »
La zoppa sorrise del tutto e fece sparire i tubetti nella tasca della gonna.
« Questo è per te » disse la bottegaia a Nunù.
Il matto fermò la bocca. Deglutì e il boccone che scendeva a fatica gli fece strizzare gli occhi.
Marie gli allungò una pezza di cotone blu. « Qui dentro c'è un libro. E questo libro racconta di un amore. »
« Di un amore » ripeté lui, lo disse come non volesse svelarlo a nessuno. Piano. Srotolò il panno e scoprì la copertina sottile di un libricino consumato. Poi si sedette, lì dov'era, e non si sentì più per tutto il tempo che servì loro a preparare la carne.
« Ecco, alle erbe profumate » gli disse la zoppa allungandogli il piatto.
Nunù sollevò la testa e invece di mangiare iniziò a leggere. Il libricino parlava di una regina e del segreto che custodiva nel suo cuore, l'amore per il suo servo. Non possedeva niente il servo ed era anche più bestia delle bestie che accudiva nel porcile. Di suo aveva quattro stracci con cui si vestiva. Non voleva altro, non chiedeva altro. Una cosa si: di rimanere solo, la sera. Si chiudeva nella stalla con una candela e ci rimaneva per tutta la notte. La regina e il re lo osservavano e tutti a palazzo dicevano che era fatto per stare con gli animali e basta. Poi un giorno la regina trovò delle lettere nella stalla, nascoste sotto lo strato di paglia del suo cavallo, Nunù fece una pausa, guardò la carne e in un solo boccone la finì. Poi abbassò di nuovo il viso e continuò e continuò il racconto. La regina lesse quelle frasi scritte con una calligrafia piena di grazia. Parlavano di lei. E le parole su quella carta erano le più belle che le fossero mai state scritte. La fecero piangere e ridere, le smossero il cuore imprigionato da sempre. Quelle parole portavano la firma del suo servo. Così la regina si innamorò di lui. Ogni mattina andava nella stalla per leggere la nuova lettera che le aveva scritto durante la notte. Un giorno ne prese una, la sua preferita, e la nascose sotto il cuscino. Di sera la apriva e quello era l'unico respiro che il suo cuore si concedeva in tutto il giorno.
Il matto vide che la zoppa lo ascoltava con il mento sulla mano.
« Continua Nunù. »
E lui continuò, ruttò, e continuò dopo che sbirciò Marie andare al foro.
« La regina provò a parlare al servo ma lui sembrava muto, teneva gli occhi bassi e non la guardava nemmeno. Poi una sera le disse: Mia regina, ridatemi la lettera, vi prego. Ho tradito il mio re, non sono degno di servirvi. La regina disse: Vi amo. Sarò io che vi servirò d'ora in avanti. Perché voi mi avete resa liberà. Ma il servo si rintanò nella stalla e quella notte bruciò ogni lettera. Ne rimase solo una, quella sotto il cuscino della regina. Quella che una mattina una serva trovò e diede al re.»
« E poi? » chiese la zoppa e si fece seria.
« Il giorno stesso il servo scomparve. E' stato messo a morte alla rupe! gridò il re mostrando la lettera alla regina. »
La zoppa si schiacciò una mano sulle labbra, il matto proseguì.
« La regina non disse niente. Tornò nella sua stanza e aspettò che fosse notte. Allora prese il suo cavallo e arrivò fino al monte. »
« No... » sussurrò Poline.
« La regina raggiunse la rupe. E lì fu libera per sempre. »
Nunù lasciò il libricino nelle mani della zoppa. Poline si asciugò gli occhi poi fece frusciare le pagine. Aprì la prima e lassù nell'angolo era scritta una frase con un carboncino sottile: « Con il cuore, dentro il cuore. Il tuo servo Pierre ». Lo chiuse subito e lo portò al petto. Guardò verso il foro e per un po'"sentì un grosso pugno stretto nello stomaco.
« La zoppa vuole essere la regina » farfugliò il matto.
« Ti è piaciuto il libro, Nunù? » mormorò la bottegaia.
Fu Poline a rispondere. « Si » disse.
Marie si voltò verso di lei. « Lo puoi tenere, Poline. A Nunù non dispiacerà. »
Lui rimase immobile, poi di scatto fece cenno di no.
Allora la zoppa si alzò, in due saltelli arrivò al letto e nascose il libricino sotto il cuscino logoro. Poi andò a sedersi accanto alla bottegaia, le accarezzò una spalla.
Marie la vide piangere. E mentre il matto spariva in fondo alle scale, le sfiorò la gonna. Gliele strinse, la gamba debole e quella forte, le strinse insieme. Si chinò, e le abbracciò e le baciò. « Sono sicura che questa Decisione riporterà il lustro che R. si merita. E con il lustro le cose cambieranno. Anche per voi, con il lustro sarà diverso...»
La zoppa la guardò, la fronte aggrottata. « Il lustro » sussurrò, poi aggiunse:
« Nella torre noi stiamo bene» e i singhiozzi le rompevano il respiro.
« Aiuto! » urlò il matto dal piano di sotto.
Poline spalancò le palpebre a Marie che non sarebbe mai dovuta essere lì con loro.
« Cosa c'è? » chiese la bottegaia.
« Il maiale! Al portone, il maiale! » fece Nunù correndo da loro, le mani nei capelli ruffi.
« Non vorrei disturbare. » Il sindaco entrò con passo deciso e puntò il bastone davanti alla zoppa. Si tamponò la fronte bagnata con il fazzoletto e lo rimise nella tasca della giacca. « Vi trovo in grande forma. » Si tolse il cappello. La testa nuda spiccava nella torre.
Poline si aggiustò i capelli dietro le orecchie. « Buonasera... signor sindaco.»
« Buonasera a voi. »
Il matto chinò il viso.
« Il sindaco è qui per questioni importanti e per portarvi qualche pensiero. » L'ometto sbucò da dietro il portone. Lo richiuse subito e si mise tra loro. « Ci possiamo accomodare? » fischiò la sua voce da bambino.
Lei si teneva stretta i fianchi, allungò un braccio verso la stanza delle corde.
« Di sopra » disse l'ometto e mostrò una cassetta di legno che portava a fatica.
Nunù la guardò. E in uno scatto corse lassù prima di tutti.
« Proprio in grande forma il ragazzo » ripeté il sindaco, la grande pancia incastrata nei pantaloni.
Poline era davanti a loro.
« Non finiscono mai questi maledetti scalini» disse l'ometto che la seguiva.
Il matto aveva liberato il tavolo marcio da ciò che la bottegaia aveva portato. La zoppa guardò il letto, gli angoli bui delle pareti, le tele ammassate, la scaletta di ferro. Di Marie restava solo il profumo leggero.
L'ometto lasciò con stizza la cassetta a terra, avvolta in uno straccio sudicio e unto.
« La stanza dei comandi. » Il sindaco si guardò intorno.
L'ometto si sedette. Puntò gli occhi tondi su Poline e appoggiò un fazzoletto al naso: « Puah! Puzza di sterco qua dentro... » disse.
« Non ti lamentare troppo, Didier, non è casa tua » lo rimproverò il maiale intanto che si avvicinava al muro senza pietre. « Sai usare bene i pennelli... » e indicò la tela che ritraeva la piazza con la sagoma grassa disegnata al centro e quella con il paese al tramonto.
La zoppa tacque.
E subito lui si concentrò sui ritratti di Jerome e di Gustave. « Grandi uomini...» Si asciugò il sudore che aveva iniziato a colare, raccolse il catarro in bocca e lo sputò dove la luce non arrivava. « Un poco sbiaditi, non trovate? » Ridacchiò appena.
« Ben detto, un poco sbiaditi! » esclamò l'ometto.
Il sindaco raggiunse gli altri e il matto cantò.
« Cosa canti? » domandò Didier.
Il matto non rispose.
« Che canzone è? » chiese il sindaco.
« La canzone di Nunù » fece il matto e si voltò dall'altra parte.
L'ometto lanciò un'occhiata al sindaco. Si trattennero, poi scoppiarono a ridere.
Ma le loro risa durarono poco. La porticina che dava al tetto sbatté e si richiuse. Guardarono lassù, in cima alla scaletta di ferro. E anche la zoppa guardò, stringendosi le mani una all'altra.
« L'orologio deve camminare preciso » disse il sindaco mentre si sedeva.
« Avete un brutto vizio, le toccate troppo spesso » gli fece eco Didier e indicò le leve. « Siete qui per miracolo... Ricordatelo sempre! » Accavallò le gambe.
« L'orologio deve dire il vero, il vero! » Strascicò la voce tra i denti.
La zoppa e Nunù annuirono.
« Chiaro? » minacciò l'ometto.
Il sindaco si alzò in piedi e arrancò verso il matto. Si chinò su di lui e con due dita gli prese il mento. « Hai capito? »
Nunù sbarrò gli occhi verdissimi. Poi si fece indietro, inciampò nella sedia e si ribaltò a terra. Cadde ma subito si rialzò e riprese a cantare a voce alta. Cantava e intanto indietreggiava. Si schiacciò al muro e diventò piccolo piccolo. Diventò un'ombra nell'angolo di pietra.
I due risero e le loro bocche spalancate si alzarono al soffitto.
Poi toccò a lei. « Hai capito, zoppa? »
Non fiatò, non lo guardò. Sentì solo quella pancia che premeva contro i seni e che era viva, che si muoveva, che respirava e scaldava.
« Zoppa » grugnì il maiale e le calciò appena la gamba forte.
Adesso lei lo fissò. I denti gialli erano zanne affilate dietro le labbra lucide di saliva. La lingua sibilava e quasi la toccava. « L'orologio non mentirà, non mentirà più... non è vero? »
Poline schiacciò le palpebre strettissime, facevano male. « Non mentirà più. » L'odore fetido del maiale le entrò dentro, scese fino allo stomaco. Le tappò il naso. Le strozzò la gola.
« Che sia... » disse il sindaco mentre la voce del matto copriva tutto.
« Smettila! » gridò l'ometto e andò vicino a Nunù. « Smettila matto » ripeté.
Ma lui non si fermò.
« La vuoi smettere o no? » Le dita minuscole dell'ometto si aggrapparono lì, sulla barba, la strattonarono una, due volte. Il matto si strofinò il viso e con le braccia si coprì la testa e gli occhi. Allora la canzone tacque finché il dolore rimase sulla pelle. Poi ricominciò.
L'ometto sbuffò e tornò da loro.
« Le questioni serie, per questo siamo qui... lascia ai matti cenciosi le loro tare » sentenziò il sindaco.
La canzone diventò leggera. ;
« Ascolta, zoppa...»
Poline lo guardò.
Il maiale si bagnò le dita e con quelle si pettinò le sopracciglia rade. « Se rimani qui è per tuo nonno che qualcosa di buono ha fatto... e per rispetto alla Decisione di mio padre. Ma...» La fissò in basso. «... dovete fare quello che vi dico, quello che il Consiglio ha deciso ieri. Dio ci ha finalmente indicato la strada per un nuovo lustro... »
Poline drizzò la schiena.
« Ridatemi le chiavi, prima di tutto. »
La testa della zoppa pulsava in alto, dove iniziava la nuca. Arrivarono delle fitte una dietro l'altra, un chiodo lungo e appuntito piantato nel cranio. « Le chiavi? » domandò.
« Le chiavi, sei anche sorda? » Didier si accomodò.
« Le chiavi della torre » mugugnò il maiale.
Poline non disse nulla. Solo un breve cenno con la testa.
« Adesso. »
Fu il matto ad alzarsi. Andò al cassetto della tavola marcia, rovistò dentro. Da lì pescò una grossa chiave nera.
« Allora qualcosa capisci... » Il sindaco la prese e non la lasciò.
« L'asse, toglietela, per farci entrare. »
« Entrare? » chiese la zoppa.
Il sindaco si alzò in piedi, camminò fino alle leve. Le sfiorò e quando scomparve dentro l'ombra, la sua voce parlò ancora: « Anche l'altra, di chiave ».
Nunù sgranò gli occhi. Cercò la zoppa.
« La camera chiusa? » disse lei.
« La camera chiusa, sì. »
Poline e il matto quella stanza l'avevano aperta poche volte. Lì dentro non c'erano altro che il vuoto e i topi, il puzzo e il buio pesto. Lì dentro, dove il freddo d'inverno era più freddo e mangiava le gambe anche ai mobili ammassati, dove l'unica finestra era un buco piccolo e tondo.
« Perché la camera chiusa? »
« Niente domande! » gridò l'ometto e fece un balzo sulla sedia.
« Potrebbe servirci...» mormorò il sindaco.
« Topi, topi e buio » disse il matto.
Loro si voltarono. « Parla anche! » scherzò il sindaco agitando la pancia riversa sulle cosce.
La zoppa si toccò la nuca, il dolore cresceva. « Perché, perché la torre? »
« Basta! » L'ometto saltò in piedi e le si avvicinò. La mano del sindaco lo bloccò per tempo.
« Il Consiglio ha deciso così, per il bene di R. E si aspetta che voi collaboriate. »
« Collaborare? »
« Non fate domande, per cominciare. »
« Non fate domande » gli fece eco l'ometto.
« E una decisione che il Consiglio ha preso, affinché R. possa ritornare al lustro, come un tempo, più di un tempo. »
« Come un tempo... » mormorò lei.
« Ben detto, zoppa. Dovete solo rispettare l'orologio, badare che i rintocchi suonino a dovere... e fare la vostra vita, standovene quassù. »
La gamba debole scivolò fino a terra. Restò così, e la calza scura seguì le linee curve del piede fermo.
Loro la guardarono, non si staccavano.
E allora Nunù cantò.
« Matto cencioso! Prendi e fai silenzio, e non dite che vi trattiamo male. » Con un calcio l'ometto spinse verso di lui la cassetta di legno.
Nunù si zittì, poi le sue mani andarono al panno che copriva tutto.
« Ti piace, eh? »
Il matto contò. Tre pomodori, due melanzane rattrappite, un caco guasto che imbrattava il legno di una polpa scura, un cantuccio di pane raffermo, due fette di formaggio ammuffito, un fiasco di vino rosso, dei fichi secchi che brillavano nella penombra. Infilò il naso proprio lì, nei fichi secchi. Profumavano di zucchero, di miele.
« Aspetta a mangiarli! » esclamò Didier. « I regali si consumano dopo che l'ospite se ne è andato. » Sorrise.
Il matto spinse la cassetta lontano da sé e si girò dalla parte opposta, gli occhi chiusi. Fu allora che il sindaco disse alla zoppa dell'Arco di R. Le raccontò che quella sera il Consiglio aveva anche deciso che nessuno sarebbe più uscito dal paese e nessuno sarebbe più entrato senza il consenso della stanza delle Decisioni.
Lei annuì.
« Per voi di certo non cambia niente! » ridacchiò l'ometto.
« E il primo passo per ritornare a splendere. » Il sindaco sbadigliò. La bocca diventò una grande caverna cosparsa di fili di saliva. « Ci penseranno i nostri gendarmi a proteggerci, giorno e notte di guardia all'Arco. Armi pronte. » Si alzò in piedi, per poco non cadde all'indietro. Si aggrappò con una mano allo schienale e quando fu in equilibrio si grattò tra le gambe. « R. conta sulla vostra collaborazione.»
L'ometto lo seguì giù per i gradini.
Poline afferrò la stampella e li raggiunse al piano di sotto. Prima di aprire il portone, il sindaco bussò sull'uscio della camera chiusa. « Non ve ne accorgerete nemmeno, vedrete. »
La zoppa sollevò la sbarra, poi tornò a toccarsi la nuca. Il chiodo batteva. Arrivava al centro della testa.
« Quella deve restare a terra. » L'ometto indicò il pezzo di legno che lei aveva lasciato cadere.
« Il Consiglio conta su di voi. »
Poline annuì, il sindaco aveva un sorriso leggero e gli occhi scuri più del buio.
« Dammi anche l'altra chiave. » Didier indicò la stanza chiusa accanto a loro.
Gliela diede.
« Arrivederci » dissero i due uomini.
Uscirono. Ora la lampada colpiva solo la zoppa. E la stanza delle corde, e la porta della camera chiusa.
Poline si toccò la testa che pulsava.
La serratura da fuori girò e subito dopo i passi si allontanarono.
« Via, andate via! » gridò il matto dalla cima delle scale. Rimase lì fin quando la zoppa non lo raggiunse. Fu in quel momento che la porticina di ferro si aprì.
« Finalmente » disse Marie mentre scendeva la scaletta in tutta fretta.
Si guardarono, ma per la zoppa tutto diventò nero. La gamba forte cedette. Poi sentì solo le mani del matto, il fresco delle pietre addosso. E la voce acuta della bottegaia: « Poline! »
Fu la notte a svegliarla, e l'aria che le seccava la gola. Poline si alzò dal letto e si mise a camminare, la sua testa era tornata senza peso. Il chiodo non c'era più, gli sembrò di sentirlo solo quando ripensò al bastone del maiale, alle chiavi sul palmo grasso e liscio, a quella voce da bambino.
Andò al catino, si chinò con le gambe che tremavano. Deglutì, la bocca sapeva di dolce. Sotto la lingua, nel palato, la saliva era di zucchero. Si attaccò al mestolo di legno. L'acqua fresca le finì fuori, scivolò nella veste, tra i seni e giù fino al pube. Bevve ancora e il freddo le scese nella gola e poi nello stomaco, le tolse via il dolciastro.
« Eri morta. »
Si voltò. Non vide niente, il nero cancellava anche i muri.
« Morta... Solo il cuore diceva: è viva.»
Sgranò gli occhi. Rovistò sul tavolo, strinse la lampada, la scosse tra le dita, per poco non la fece cadere. Trovò la rotella e la girò, la fiamma si impennò.
Per primo fu il chiarore dei capelli. Poi, subito dietro, il petto largo senza la divisa, coperto da una camicia chiara: «Mi hai fatto paura» disse ancora quella voce un poco rauca.
« Pierre, tu...» sussurrò la zoppa.
« E' morta, è morta! L'hanno ammazzata! continuava a dirmi Marie. »
La bottegaia la raggiunse e la fece sedere al tavolo.
« Invece era la stanchezza. »
« La stanchezza? » fece la zoppa e non si staccò dal gendarme.
« Sì, Poline. » Pierre sorrise e la luce lo svelò del tutto.
La zoppa chiuse gli occhi perché Marie le passò uno straccio bagnato sulla fronte. « Sto bene » disse.
« Ora sì » rispose la bottegaia.
Il gendarme si sedette al tavolo marcio. Incrociò le dita, sollevò le sopracciglia e fissò Poline: « Dovrei passare a trovarvi più spesso ».
« No » rispose lei secca.
« Lo so. Nunù ci ha detto tutto. »
« Anche delle chiavi? »
La bottegaia annuì. Si appoggiò alla spalla del marito e la mano di lui andò a cercare quella di sua moglie, la toccò, l'afferrò. E con essa strinse quella della zoppa, che si fece prendere.
« Sophie è sola » disse Poline.
« Sta dormendo, non si sarà accorta di nulla » rispose Pierre.
« Hanno le chiavi della torre » fece lei mentre abbassava la gamba debole.
Pierre annuì. E il suo palmo fu sopra quello della moglie e della zoppa.
« Anche della camera chiusa » disse Marie.
« Per quale motivo... Cosa c'entra con la Decisione? » La zoppa guardò il gendarme.
« Non lo so » rispose lui.
« Il capo dei gendarmi non te l'ha detto? »
« Nessuno del Consiglio si è confidato. Un unico avviso: Non vi avvicinate alla torre. »
La zoppa si allacciò la vestaglia fino al collo, sentì un tremore che dalle gambe corse alla schiena. Guardò Marie.
« Non preoccuparti, Poline. Sarà per il nostro bene. E anche per il tuo e di Nunù. » La sorresse. « Aspetterò che il sindaco sveli la Decisione a tutti. Poi verrò e vi
porterò altro cibo. Il loro non lo darei da mangiare neanche alle bestie selvatiche. »
« Quando parlerà il Consiglio? » chiese la zoppa.
« Domani. Il sindaco passerà di casa in casa ad annunciare la Decisione. » Pierre sospirò.
Poline chinò la testa, la sollevò all'improvviso. « La Decisione riguarda la polvere dolce? »
« Se così fosse, verrebbe taciuta. »
« Allora cosa? »
La notte non si mosse dal cielo. Rimaneva alta e sicura. Era stesa sui tetti delle case ed entrava nelle finestre spente. Addormentava le voci, le braccia, gli occhi. Il grande orologio diceva che la prima luce era ancora lontana, lo scuro era su ogni cosa tranne che in quel piccolo foro che dalla torre balenava debole. La fiamma era un respiro che pulsava lassù e illuminava i loro visi stanchi. E adesso che avevano smesso di parlare, mostrava le bocche dritte e le spalle curve. Zitti, lo sguardo ai buchi del tavolo marcio. « Perché la torre? » rimbombava nelle loro teste.
« Cosa c'è nella camera chiusa? » domandò il gendarme.
« Topi e mobili » rispose lei mentre si passava una mano sul viso stropicciato.
« Che motivo c'è di volere la chiave? »
Quella sera Poline dipinse una tela piccola. Mischiò il blu e il giallo per fare quegli occhi, al centro del quadro. Disegnò solo quelli. Grandi, grandissimi. Dovunque si spostasse, la seguivano. La spiavano e restavano sospesi.
Erano gli occhi di suo padre. Il giorno in cui disse che la portava fuori. Erano gli occhi di quando le parlò del gendarme, e disse che si poteva andarlo a vedere da vicino. E mentre lo diceva, aveva l'aria di incredulità, di felicità. E di paura. Continuò ad avercele sempre, anche mentre camminavano là fuori, anche quando tornarono nella casa del sindaco, per tutto il resto dei giorni. Quegli occhi avevano un lumino che li faceva brillare e quel lumino c'era anche l'ultima volta che li vide. Sul letto suo padre l'aveva abbracciata e le aveva detto: « Sei mia figlia, sei mia figlia, Poline ».
La zoppa si avvicinò alla tela, la sollevò e la portò via. Andò alla parete senza pietre e là scelse tra due chiodi liberi. Sistemò il quadro nell'angolo alto, al fianco di Marie sposa.
Con la lampada camminò avanti. Eccoli di nuovo, gli occhi. Il blu pulsò, il giallo si accese. Adesso, da lì appesi, l'avrebbero fatto: proteggere la torre, lei, il matto. Anche con quella paura, dentro.
« Ci guardano! » Nunù fece un passo indietro. Restò a fissare la nuova tela, anche se le lancette del grande orologio dicevano che era quasi l'ora del lavoro. « Gli occhi ci guardano. » Si mosse un po'"a destra, un po'"a sinistra.
« Suona! » disse lei dal tavolo marcio, l'orologio d'argento in mano. Sorrideva per il matto che si era accovacciato a terra e spiava il quadro.
« Sono vivi » fece lui. « Gli occhi disegnati si muovono » disse ancora e si voltò verso di lei.
« E l'ora del lavoro, suona il lavoro Nunù. »
« L'ora del lavoro » ripeté lui. Così il matto corse giù e la campana cantò le sette in punto.
Lei raggiunse il foro.
« Guardano anche la zoppa, si muovono » disse Nunù quando tornò da lei.
Dalla tela gli occhi erano due fuochi nel chiarore del giorno.
« Non esistono occhi blu e gialli » mormorò il matto mentre indicava i suoi.
« Guarda bene. »
« No » disse Nunù. « Verdi e bianchi. »
Poline tornò al tavolo. Aprì il cassettino e tirò fuori lo specchio. « Guarda meglio » e glielo diede.
In uno scatto lui lo afferrò e andò a sedersi. Lo avvicinò alla faccia.
« Più vicino. » Lei gli era dietro.
Il suo viso riflesso diventò grande, grandissimo. La barba era scomparsa, il naso schiacciato era tagliato a metà.
« C'è il giallo » farfugliò Nunù il matto.
Lei annuì.
« Il grigio! »
« Sì. »
« Il rosso, il blu. E anche il verde! » La guardò. Si avvicinò a lei e quasi si sfiorarono.
Il respiro di Nunù le finì addosso.
« La zoppa ha il nero, il bianco, il rosso. E il giallo! » La baciò sulla punta del naso. Restò a guardarla un attimo, poi andò al foro.
Lei non si mosse, si accarezzò il viso dove le labbra morbide di lui si erano appoggiate.
« Il maiale con il bastone entra nelle case! » La testa del matto era incastrata tra le pietre. Si levò da là e agitò le braccia impazzite.
Poline si aggrappò a un angolo del tavolo.
« Va nelle case insieme all'ometto! »
Il freddo le salì dai piedi fino allo stomaco e lo riempì. Le gelò la schiena, le seccò la gola.
« E' al capo dei gendarmi! »
La gamba forte la spinse veloce. La portò dal matto e al foro.
« Annuncia la Decisione.» La zoppa spinse la testa contro il foro e vide il sindaco scortato dall'ometto e dal capo dei gendarmi che entrava ora in una casa, ora in un'altra.
« Il segno di Dio...» La guancia di Nunù si attaccò a quella di lei.
In un angolo della piazza il prete giovane teneva le braccia aperte, una mano si levava alta e benediceva la casa da cui usciva il maiale. E chi adesso sapeva tornava subito sulla porta, si affacciava a cercare gli sguardi di chi come loro ora conosceva la Decisione. Le donne si stringevano ai propri sposi, avvolte nei vestiti malandati. Gli uomini si guardavano l'un l'altro, qualcuno con gli occhi andava alla torre e si faceva il segno della croce.
Poline si scostò dal foro, il gelo le prese di nuovo le gambe e lo stomaco.
Nunù la cinse ai fianchi e provò a farla sedere. « No » disse lei. « Voglio vedere. »
Il sindaco uscì dalla casa di colui che un tempo era stato l'orafo di R. e lui lo ringraziò con una mano alta. Allora l'ometto e il capo dei gendarmi si voltarono intorno, poi indicarono la via delle botteghe ma il maiale disse no, che si andava di là, per la strada della scuola. Così si avvicinarono un po' alla volta ed ecco che dalla porta della casa bianca comparve uno spicchio di blu. Pierre aspettava, le braccia intrecciate dietro la schiena.
« Marie » esclamò Nunù.
Dietro il gendarme c'era il viso della bottegaia. Lei se ne stava lì, mentre la mano del marito stringeva la zampa grassa del sindaco. Poi scomparvero dietro la porta che si richiuse.
« Il maiale è entrato » disse il matto.
Poline andò al tavolo marcio, afferrò il fiasco di acquavite e se lo portò alla bocca. Il liquore che scendeva le suonava in gola. Bruciò per un attimo, poi scaldò il petto.
« Non esce...»
Lei si sedette sul letto e fece scattare l'orologio. Fissò Nunù con la schiena curva sulla piazza, la maglia larga e sformata si adagiava sulle spalle larghe.
« Il maiale con il bastone sta andando via. » Il matto spingeva la testa dentro il foro. All'improvviso si bloccò.
« Vengono » mormorò. « Vengono nella torre. »
Poline sgranò gli occhi.
« Vengono, vengono! » non smetteva di dire il matto. E adesso si agitava più di prima.
Lei scattò dalla sedia.
« Nella torre... » disse Nunù, con le mani che si aggrappavano alle guance pelose.
La gamba debole faticava a seguire la fretta dei passi. Poline si gettò sul foro e vide il sindaco camminare verso il portone. L'ometto e il gendarme lo seguivano e intanto facevano cenno di aspettare alle case in attesa.
« Aiuto » sussurrò il matto.
Si scostarono dal foro.
Poline attese con l'orecchio al piano di sotto. Nunù schiacciò i palmi alle tempie.
Calma, poi un tintinnio. Le chiavi che stridevano e giravano dentro il legno.
Poline si accovacciò sotto le leve e il matto con lei.
« Avanti, avanti » dicevano da sotto.
« Fate presto » bofonchiò il maiale.
« Ci penso io. » L'ometto parlò e alcuni colpi rimbombarono dappertutto. Dei lamenti e il silenzio. « Non si apre, sindaco. »
« Idiota. »
Altri colpi. « In nessun modo. »
« Fatti da parte! » Il maiale iniziò a grugnire. C'era del ferro che picchiava contro altro ferro, e il legno che rimbombava sotto quelle braccia maldestre. E i loro sforzi che erano gemiti acuti.
« Ecco, ecco! »
« Tutto io devo fare... »
La zoppa si appoggiò una mano sulla fronte. La fece scivolare fino in alto, nello chignon, e ancora avanti sulla nuca. Lo sentì. Aveva cominciato a battere, il chiodo aveva ripreso a pungere, a conficcarsi piano piano.
Un grido strozzato. Un trambusto senza fine. Qualcosa strisciò.
« Accendi. »
« Che ti avevo detto, non c'è niente qui! Leggende e basta... Anche R. ha le sue leggende, no? » Il maiale tossì fra gli zampilli di saliva.
« Nessuna morta, nessuno scheletro della sposa dell'orologiaio. Il vecchio non ha ammazzato nessuno...» ridacchiò l'ometto.
« E' ora di finirla con queste invenzioni. »
« Si sarà buttata nel fiume perché non sopportava la disgrazia. »
Ora la mano di Poline scese sul collo e toccò il ciondolo.
« Dentro questa torre R. ci vede morti e demoni. L'abbatterebbero subito se non dovessero toccare le pietre...»
« Le pietre? »
« Dicono che sono maledette. »
« Basta » biascicò il maiale. « Qui vedo solo qualche mobile lercio. Diremo alle donne di pulire, così tutto sarà a posto » la bocca del sindaco sputò.
« Domani potranno venire. »
Nunù sgranò gli occhi.
« Continuiamo il nostro giro, signori. »
« Via, chiudi. »
Il legno strisciò di nuovo. Altro ferro che strideva. E le scarpe che picchiavano sulle pietre. Un botto, il tintinnio. Niente più.
Aspettarono. E quando la torre tacque, il matto si alzò. Poline no, rimase accucciata. Allora lui si chinò ancora e le mise un braccio sotto le gambe e l'altro alla schiena. Poi la sollevò e mentre si avvicinavano al letto, la zoppa gli disse: « Sto bene ».
Nunù la lasciò un po' alla volta e quando la gamba forte fu a terra le sistemò la gonna che non voleva scendere. « La testa... » mormorò, e l'indice sfiorò lo chignon ordinato di lei.
« E' la stanchezza. »
Arricciò il naso, mentre inclinava il viso da una parte.
Ma lei era già alle scale. Si fermò per via della stampella, la incastrò sotto il braccio. Scese il primo gradino e poi gli altri ed era come se non li vedesse. Appoggiava il piede e intanto guardava dove loro erano passati. C'era il segno delle scarpe sulle pietre. Arrivò in fondo. La luce da sotto il portone mostrava appena quelle orme: linee curve, cerchi a metà. Si aggrappò all'ultimo chiodo che sporgeva dal muro, si girò intorno. Le funi dormivano e a terra c'era la scia lasciata dal portone aperto. « I libri! » Il matto le corse accanto, passò tra le corde e si buttò sulla pila dei volumi. Diceva ogni titolo, poi li contava. « Nunù sta attento al maiale che ruba i libri » disse.
Poline si voltò verso la porta della camera chiusa. Era stata aperta.
Il matto la raggiunse, le mise il mento sopra la spalla. « La zoppa ha la stanchezza, deve dormire » disse.
Lei avanzò.
« Aiuto» farfugliò lui, intanto che provava a trattenerla.
Lei allungò una mano alla maniglia arrugginita.
« No... » Il matto si tirò indietro.
Un dito toccò il ferro ruvido. Poi un altro, e ancora.
« Aiuto! » Nunù salì due gradini. La sua testa sbucava dall'angolo.
Poline strinse. E tirò.
« Ah!» fece lui.
Ma niente si mosse.
Il matto scese uno scalino.
La zoppa tirò e tirò. Puntò la gamba debole alle pietre e la stampella cadde. Le sue braccia annaspavano, schiaffeggiavano l'aria, si allungavano e si accorciavano. Il legno della porta strideva appena.
« Hanno rubato i mobili! Hanno ucciso i ragni e i topi! »
Lei non rispose. Si chinò e il suo occhio entrò nella serratura.
« Hanno rubato i mobili? Hanno ucciso i ragni e i topi? »
C'era un po' di luce là dentro. E la punta dell'armadio che copriva la parete. Non vide altro. « Non hanno rubato niente, niente» disse la zoppa mentre si alzava in piedi.
Nunù allora scese anche l'ultimo gradino. « Perché sono entrati nella camera chiusa? »
Poline raccolse la stampella da terra. Rimase in silenzio, la gamba debole tornò alta e immobile.
Il matto portò tutti i libri nella stanza delle leve. Li ammassò in un angolo, un mucchio che dondolava senza cadere. Li sistemò quella sera che il paese seppe della Decisione, quando la piazza restò sveglia fin dopo l'ora del riposo e le voci non smettevano di parlare. Cominciò a scendere e a salire, a scendere e a salire, faceva tre o quattro gradini alla volta con le gambe che volavano e le braccia cariche.
Poline contò quarantaquattro libri. Il preferito del matto era quello con la copertina consumata che stava a metà del mucchio. Raccontava del bambino spazzacamino. Il primo libro che il maestro delle campane gli aveva regalato. Andò a guardarlo da vicino: i fili che legavano le pagine spuntavano da tutte le parti e il peso degli altri libri lo faceva sottile. Era tra le avventure del pirata che suonava il violino ai pesci e le storie dei cacciatori nella giungla che avevano disegni spaventosi: uomini con le bende sugli occhi e spade affilate, bocche senza denti e balene affamate. Poi tigri feroci e serpenti che sapevano nuotare e che se volevano ti mangiavano con un morso. Si ricordò di suo padre che le diceva: « Non temere, i pirati e i corsari sono dove il mare è così profondo che non si vede la fine ».
Poline si chinò e con il dito sfiorò i bordi, arrivò fino in fondo, al libro dei disegni. Era il più grande di tutti, lì c'erano i ritratti della grande città. Un giorno il vecchio l'aveva mostrato prima a Nunù e poi a lei. Così era stato come andarci, tra le strade illuminate, tra le case grigie che arrivavano anche a quattro piani. I ritratti facevano
vedere uomini eleganti con i cappelli e uomini dai vestiti bucati e la faccia tutta sporca. I bambini giocavano sulle strade larghe dove correvano biciclette e carretti. Le botteghe erano dappertutto, con le luci e le cose buone che pendevano dietro il vetro. E in fondo c'era il mare, una striscia chiara di luce. Non si vedevano, aveva detto l'orologiaio, ma da qualche parte molte navi stavano arrivando per fermarsi al porto. Alcune erano già là e scaricavano e caricavano merci preziose da portare alla valle e al resto del mondo. Il mare le avrebbe condotte via subito dopo, lontano.
La zoppa si rialzò, le due pile di libri le arrivavano alla pancia. Soffiò sul velo di polvere dell'ultima copertina, la sfiorò, ed ecco che il mucchio si mosse e subito anche l'altro. Li fermò con una mano. Aspettò che si fossero calmati, poi si allontanò lentamente. Raggiunse il foro e soltanto quando furono immobili si rivolse alla piazza.
I fuochi accesi svelavano delle ombre agitate. R. si spostava dalle case alle strade, in molti sulla porta a guardare il gruppo dei gendarmi che scendeva verso la torre. La luce colpì qualcuno di loro e i visi diventarono chiari. Il sindaco era l'ombra più grossa, l'ometto l'ombra più piccola. Pierre era dietro tutti.
Poline spinse avanti la testa, la fronte grattò contro lo spigolo della pietra. « Nunù» iniziò a dire, ma il grido le morì in gola. Andò al tavolo marcio e poi sul primo gradino. «Nunù, stanno venendo! » strillò.
Non rispose. Al di là del portone le voci crescevano.
« Nunù! » Scese ancora.
Il matto sbucò all'improvviso, velocissimo, le ali ai piedi. Si bloccò solo quando le fu vicino. La prese e quasi la sollevò. « Gli uomini » disse storcendo la bocca.
« Sì. » Lei si aggrappò al suo braccio. E non toccò più terra. Strinse quella manica fradicia di sudore e piegò le gambe. Salì sopra di lui, il fiato del matto diventò corto. Si ritrovò sul tetto, il vento leggero che li colpiva dolcemente. Rimasero tra il fuori e il dentro, non si mossero più. Ascoltavano.
Il portone grattò contro il terreno. Il capo dei gendarmi parlò. Altri passi. Parlò ancora e adesso tutti i rumori erano coperti da quella voce cavernosa. Disse: « E' da qui che risorgeremo ».
Nunù si impietrì. Teneva le mani strette in due pugni a mezz'aria e il respiro gli usciva in tanti pezzi.
Un gendarme disse che la torre era troppo buia.
« E' sudicia e lercia » disse un altro.
Il sindaco spiegò che d'ora in poi ci sarebbero state le lampade e lo sporco era solo questione di ore perché l'indomani le donne avrebbero sistemato ragnatele, topi e polvere.
La voce di Pierre riempì la torre: « E' rischioso, potrebbero.. » e si zittì, «. scoprirci » disse.
« Come? Come potrebbero? » disse l'ometto.
« A R. si potrà entrare solo con il consenso del sindaco e dei blu all'Arco. » Il capo dei gendarmi si raschiò la gola.
Qualcuno chiese della zoppa e del matto.
« Quei due sarà come se non esistessero. Sono già stati avvertiti. » Il sindaco prese a tossire e i suoi colpi si fecero lontani, sempre di più.
« E tutto » esclamò l'ometto.
Nunù si accovacciò e fece passare la testa dentro le sbarre della scaletta. Avvicinò l'orecchio al vuoto. Da lì agitò le mani verso di lei che con la gamba faceva cigolare il ferro dei gradini. « Zitta! » dicevano i gesti del matto.
Poline si bloccò.
E lui si mise ad ascoltare.
Il portone sbatté, le chiavi girarono dentro la serratura. Più niente.
Il matto scese di un gradino, il ferro vibrò ancora. Si chinò, da fuori le voci si erano fatte leggere. All'improvviso un applauso timido crebbe, ma quasi subito si spense. Allora Nunù cominciò a correre. Giù per la scala, per la stanza delle leve e ancora fino al piano di sotto.
La zoppa si accucciò. L'aria della notte che arrivava da fuori sapeva di fresco e di lontano. Poline teneva gli occhi al tavolo marcio quando vide il matto tornare. In verità vide prima il letto, poi le sue braccia strette al fagotto di stracci e al cuscino. Nunù l'aveva trasportato su e adesso lo stava sistemando proprio lì, accanto ai due mucchi di libri, controllando che i volumi non cadessero. Si asciugò la fronte, poi piegò il lenzuolo con un risvolto ordinato. Guardò la zoppa, le mani che si tormentavano..
« Nunù dorme qui. »
La zoppa annuì e uscì sul tetto.
C'era il buio là fuori. E le stelle, su in alto, la luna e poco più giù le cime delle montagne nerissime. Scalfivano il cielo e scendevano al bosco, una nuvola densa dove neanche il tempo esisteva più. Chi lo oltrepassava poteva rimanere imprigionato per anni, o per secondi, invecchiava subito, tornava bambino. Il bosco decideva se guidarti alla grande città, oppure farti vagare fino a cancellare ogni ricordo nella sua foschia di voci. Come una nebbia scesa piano, che dissolve le cose senza farsi accorgere.
Poline raggiunse la gabbia della campana. Ci camminò intorno, arrivò dove il tetto si alzava appena, prima del vuoto. Laggiù c'erano ancora i gendarmi. In pochi, con le divise accese dalle luci vive. Camminavano verso la via della scuola. Due erano fermi. Zitti, uno accanto all'altro, vicino alla fontana secca.
Fece un passo indietro, si accovacciò dove il buio era ancora più buio. La casa del sindaco dormiva come le altre, come quella del capo dei gendarmi, come quella di Marie. Anche la casa bianca della bottegaia si era addormentata. Si sarebbe svegliata tra poco, ne era sicura, con il portone aperto all'improvviso e con il passo svelto di lei che usciva in piena notte per raggiungere la torre. Marie le avrebbe raccontato ogni cosa, avrebbe svelato la Decisione anche a loro.
Si sporse nel vuoto. I due gendarmi ora passeggiavano verso il centro della piazza, le mani dietro la schiena, il petto gonfio. Allungò il collo, l'aria le sembrò più fresca. Per un attimo riuscì a scorgere la torre da fuori, le sue pietre una sopra l'altra, lisce per il tempo che le aveva calpestate. Le guardò un istante e si sentì fuori. E la torre non era nient'altro che una torre e le lancette nient'altra cosa che lame di ferro che si muovevano ogni tanto. E l'orologio solo un orologio. Così lei immaginò che dietro quei muri non ci fosse nessuno, che di matti e di zoppe a R. non ce ne fossero per niente. A R. c'erano solo le bambine che si rincorrevano alla scuola con il fiocco viola in testa e le mantelline sulle spalle. E poi i gendarmi più coraggiosi e una lana pura come un tempo e le donne più belle della valle. Adesso era anche lei una di loro: il suo viso era truccato, le labbra rosse, gli occhi più grandi e le ciglia più lunghe. Indossava un vestito elegante e al collo portava un foulard di seta che svolazzava a mezz'aria.
« Che bella » diceva la gente che passava. Poi venne un gendarme, per lei aveva pronto un fiore. L'avrebbe conservato per quella sera, quando lui sarebbe andato a bussare alla sua porta. E lei gli avrebbe aperto senza neanche chiedere: « Chi va là?»
Poline ritornò seduta dove il tetto finiva. Con una mano si allungò la gonna stropicciata. Il piede curvo scese e lei si strinse le braccia al petto, le strofinò alla camicetta, nel punto in cui era più lisa. La notte era così scura che non le riuscì di guardarsi le mani. Lei non c'era più, lassù. Ma i suoi occhi sì, rimanevano accesi per vedere là sotto, dove gli occhi che guardavano non riuscivano a vederla.
Marie non arrivò neanche quella notte.
La zoppa era rimasta fuori, poi al foro, a spiare i due gendarmi e la casa bianca in fondo alla piazza. Ogni tanto si voltava e fissava Nunù, aveva la bocca socchiusa e il lenzuolo lo avvolgeva fino al mento. Il matto non si muoveva, il respiro gli usciva rumoroso e fischiava contro le labbra secche. Le leve pendevano sopra la testa ruffa e il mucchio di libri sembrava cadergli addosso da un momento all'altro. Pareva dormisse, ma ogni tanto un occhio si apriva, veloce, e la guardava. Rimaneva aperto mentre il fiato pesante continuava a soffiare e il corpo non faceva un solo gesto. Quell'occhio non la lasciava e per sfuggirgli Poline abbassava la fiamma del lumino. Allora il buio scendeva all'improvviso e durava qualche istante. Poi la zoppa girava di nuovo la rotella, la luce tornava e l'occhio spalancato del matto era ancora lì, vispo, ad aspettare un cenno della zoppa che dicesse dell'arrivo di Marie. Nunù si destò del tutto quando vide la zoppa srotolarsi dallo scialle e stendersi sul letto accanto al tavolo marcio. Subito il matto si infilò le scarpe, si lavò la faccia nel catino e incastrò la testa nel foro.
Curvo, i pantaloni che arrivavano a metà sedere. Poline lo vide così, prima che il sonno la raggiungesse. Finché un grido di lui avvertì delle donne e del maiale che volevano entrare nella torre.
« Basta, matto » fece Poline stordita. E riprese a dormire, ma per poco. «Le donne» si disse e sbarrò gli occhi. La testa pulsò, il chiodo batté. Si mise in piedi. Prese l'orologio e lo aprì: mancava mezz'ora alle sette.
« Le donne, il maiale e sua moglie! » Nunù si chinò per non farsi vedere e intanto si contorceva dalla paura.
Poline si precipitò da lui. La piazza era vuota. Spinse il viso avanti e riuscì a vederli. Un braccio scuoteva il portone. « Maledetta chiave! »
« Entrano! » disse il matto.
« Si è incastrata! » Il maiale grugnì e un colpo spalancò il legno.
« Ora il matto e la zoppa vanno sul tetto » disse Nunù. Poline fece per correre alla scaletta, ma quando fu al tavolo marcio si frenò. Socchiuse gli occhi e lentamente tornò indietro. Si accovacciò sul letto del matto, la schiena appoggiata al muro. Le dita le avvolgevano la testa tra le ginocchia.
« Avanti » disse il sindaco.
Le scarpe batterono. Le mani toccavano. Il sindaco dava ordini.
« Zoppa » la chiamò Nunù sottovoce. Il ferro della scaletta cigolò, il matto stava salendo piano. Quando fu in cima le fece cenno di seguirlo ma Poline non lo ascoltò. Uscì solo, mentre il giorno riempiva la stanza delle leve.
L'orologio d'argento segnava dieci minuti alle sette. « E' qui?» C'era una voce calma adesso. Solo quella. Veniva dalla donna che da bambina teneva i capelli biondi raccolti in trecce lunghissime. Era gentile quella voce, leggera. Domandava del troppo buio e delle pietre umide.
« Sciocchezze, ha coraggio. Più coraggio di me e di te » fece il sindaco.
La donna bionda non parlò più. Ci furono alcuni colpi, forti, deboli, fortissimi. I mobili cominciarono a camminare. Qualcosa sbatté, il portone vibrò. Qualcosa entrò.
« Appoggiatelo » disse il maiale.
La zoppa saltò in piedi e corse al foro. I gendarmi si allontanavano, sfregavano una mano contro l'altra.
« L'acqua» disse una delle donne. « Serve dell'altra acqua. »
« Vai a chiederla » grugnì il maiale.
Il silenzio tornò.
« Vai! » disse il sindaco.
« Sindaco, io... »
« Non ti mangeranno! »
« La prego...»
Il maiale sbuffò.
« Andrò io » fece la voce gentile. Ma non si mosse.
« Vai allora...»
Quelle scarpe iniziarono a salire lentamente.
Poline si accucciò dov'era, gli occhi bassi.
« Serve un...»
La sentì, era al tavolo marcio.
« Buongiorno, serve un po' d'acqua. »
La zoppa non si voltò.
« Non volevo disturbare, solo un po' d'acqua nel secchio. » La donna si avvicinò.
Poline continuò a non guardarla. Allungò un braccio e un dito verso il catino nell'angolo. Ascoltò i passi leggeri, li sentì spostarsi nella stanza delle leve. L'acqua scrosciò e gorgogliò.
« Ne è rimasta abbastanza » disse la donna.
Poline aspettò. E appena intuì che la figura si era voltata, le puntò gli occhi addosso. Era una donna alta, molto più alta di come l'aveva sempre vista da lassù, i fianchi stretti, la chioma che le arrivava fino al sedere piatto. I capelli talmente biondi che erano bianchi. E le gambe sinuose gonfiavano la gonna e si riducevano in due polpacci sottili. Scomparve dietro l'angolo, con il pallore del viso che si mostrò un istante, solo alla fine, un piccolo bagliore roseo.
« Ecco » disse dal basso la voce gentile.
Poline sentì il secchio finire a terra.
« Li hai visti allora? »
« C'era lei. »
« Com'è? » domandò una delle donne.
« Diglielo com'è fatta la zoppa. »
Ma la voce gentile non disse niente.
« E storpia e miserabile. » Il sindaco tossì. « E adesso che l'hai vista avrai la maledizione anche tu » ridacchiò.
« Ma il matto è anche il suo... » una delle donne continuò. « Insomma, voglio dire...»
« Mi auguro di no! Provate a immaginare cosa nascerebbe da lì... Uno storpio senza testa. Uno scherzo del Signore fino in fondo. »
Subito dopo ci fu un rumore di acqua versata. Poi uno sciacquio e gli stracci che strusciavano.
« Questa stanza brillerà, sta già brillando, non è vero? »
« Si, sindaco » fecero in coro le due donne.
Poline rovistò nella tasca, tirò fuori l'orologio. Il coperchio si aprì, pochi minuti e sarebbero state le sette, l'ora del lavoro. Alzò gli occhi, la porticina faceva entrare una riga di luce. Iniziò a salire sul tetto. Là, avvolto nel giorno, nascosto dalla campana, il matto se ne stava rannicchiato e si dondolava appena.
« E l'ora del lavoro » gli disse.
Nunù fece un balzo. Spalancò gli occhi e con la testa le disse no.
« E l'ora del lavoro » ripeté Poline intanto che con una mano gli afferrava il braccio.
« Loro guardano, gli uomini guardano Nunù. »
« Devi suonare... ti prego. »
« Le donne, il maiale con il bastone... guardano tutti Nunù. »
Allora lei fece scattare il coperchio dell'orologio e gli mostrò il ritardo.
Il matto si tappò la bocca. E la seguì.
« Che il tempo li acciuffi e li conduca » gli sussurrò lei quando scesero la scaletta. Ma al tavolo marcio lui si bloccò. Scuoteva il viso. « No » disse.
« Io sono troppo leggera. »
« No » fece ancora lui.
« Devi suonare, devi. »
Dal piano di sotto la voce del sindaco cresceva.
« No » disse il matto.
« Che il tempo li acciuffi e li conduca. »
Nunù trattenne il respiro. I rumori laggiù erano vicini.
« Voglio proprio vedere » stava dicendo il sindaco.
Il matto strinse i pugni, il fiato gli gonfiava le guance paonazze e poi usciva dalle labbra serrate in un soffio fortissimo.
« Vai » gli disse lei.
E lui ubbidì.
Poline lo guardò finché anche l'ultimo ciuffo di capelli scomparve dietro la pietra.
« Ah! Eccoti! » esclamò il sindaco. « Signori, vi presento la testa vuota di R., vieni a mostrarti! »
Ma i passi del matto non si fermarono mai fino alla stanza delle funi.
« Suona la campana Nunù! » gridò Poline con la voce che le tremava. « Suona! » Si abbassò accanto alle leve dove le corde bucavano il pavimento e salivano fino al soffitto.
« Volevo ben vedere io che non suonassi! » grugnì il sindaco. « Guardate, si è mai visto un matto che suona la campana? Guardate! » ridacchiava il maiale.
« Guardatelo! »
Poline vide le corde salire, scendere, lente e veloci.
« Guard...»
Ma il primo rintocco zittì ogni voce.
Non era cambiato niente tranne il profumo. Bastava scendere tre gradini e il fresco entrava nelle narici e non se ne andava più via. Da quella mattina che avevano pulito, Poline portava spesso il naso alla serratura, poi sotto la porta della camera chiusa. Proprio là il profumo diventava forte e scendeva in gola, era come il vento dei monti che la sera calava sulla piazza, sapeva di fiori e neve.
Nunù non lo voleva sentire il profumo. Correva veloce per le scale senza fermarsi e si attaccava alle corde quando arrivava l'ora di suonare. Poi saliva lassù e al piano di sotto non tornava se non per la campana. « Marie non viene più da Nunù e la zoppa » diceva ogni giorno a Poline.
Neanche Pierre si era più avvicinato alla torre. Al suo posto c'erano due gendarmi che tenevano gli occhi fissi al grande portone, due gendarmi che si davano il cambio con altri due. Erano rimasti lì i blu, anche quando la piazza si era riempita per la preghiera a Bulbon che si era addormentato. Lo avevano trovato nel suo letto, gli occhi chiusi per sempre.
« Dormi bene, maestro con le gambe corte » aveva mormorato il matto quando l'aveva visto dentro la bara scoperta. Da lassù pareva un bambino con la pelle raggrinzita. Gli avevano messo un vestito elegante e il cravattino rosso. La giacca larga piena di pieghe pareva affogarlo. Quello era il maestro con le gambe corte, roseo e rinsecchito, nella bara di legno grezzo. Soltanto il giorno prima Poline l'aveva visto all'inizio della strada delle botteghe che disegnava con le braccia cerchi nell'aria. Si appoggiava al bastone e sembrava scrivere in aria parole immaginarie. Nel paese dicevano che era il secondo matto di R. « E' questione di tempo » aveva detto la bottegaia. « Solo questione di tempo. » E infatti la polvere dolce aveva agito in fretta. Lo stesso era avvenuto per il bambino con gli occhi a mandorla, per la bambina che non muoveva il corpo. Per il figlio cieco di uno dei gendarmi, tutti nati dopo la disgrazia di Poline. Solo questione di tempo.
Quella mattina del funerale di Bulbon, tra la folla che pregava, c'erano anche Marie e Pierre. In piedi accanto alla fontana, avevano alzato i visi al grande orologio come a sbirciare dentro il foro. Fu l'unica volta in due giorni che la zoppa e il matto li videro.
Poi, tre sere dopo, Pierre arrivò al portone della torre.
« Poline! » chiamò. « Poline! »
La zoppa si precipitò giù, Nunù dietro di lei. Rimasero ad ascoltare le voci dietro il portone.
« Aspetta » diceva un gendarme.
« Pierre, aspetta » diceva un altro.
« Come dite? » domandò il marito della bottegaia.
« Perché vuoi entrare? »
« Come? »
« Dobbiamo saperlo. »
« Io sono un gendarme. »
« E l'ordine, lo sai bene. »
« Niente contro di te Pierre. »
« L'ordine del sindaco » continuavano a dire le due voci.
« E una torre questa? » Pierre batté due colpi contro il portone.
« Come hai detto? » domandò uno dei due uomini.
« Ho detto... Questa è una torre? »
Il fiato caldo del matto le toccava un orecchio. Lei fece un passo avanti, il viso sfiorava la grossa serratura.
« Sei strano, Pierre. »
« Cos'è, questa, per voi? » ripeté il gendarme.
« La torre, è la torre » fece uno.
« E quello lassù, cos'è quello lassù? »
« Pierre, sei strano questa sera. »
« Rispondetemi. »
« Il grande orologio, è il grande orologio di R. »
« No » esclamò il gendarme.
« Si è il grande orologio di R., lo è. E questa è la nostra torre » rispose una voce.
« No, questa è una prigione. E io sono un gendarme... » Pierre fece una pausa,
«... che sta andando dai prigionieri. I prigionieri di R. »
Dei passi si allontanarono, poi qualcuno bussò.
La zoppa si tirò indietro.
« Poline, Nunù! »
« Chi va là? » sussurrò la zoppa anche se già sapeva. E raggiunse il chiavistello alto e quello basso.
« Sono Pierre. »
Li fece scattare e appena lo spiraglio si aprì, si mise da parte.
La luce entrò insieme al blu.
« Poline... »
Le braccia di Pierre richiusero per un istante il portone. « Aspetta fino a domani » disse bisbigliando.
« La Decisione dilla a Nunù » esclamò il matto dalle scale.
« Pierre » fece la zoppa.
« Domani...» E il gendarme scomparve.
« Esci subito di lì! » ordinarono da fuori.
E lui ubbidì.
La zoppa continuò a vederlo anche se non c'era più. Anche se al piano di sotto c'erano solo il portone semichiuso e il vuoto. «Pierre, la Decisione... » disse la zoppa tra sé, piano. Camminò fin dove il gendarme era stato, avvolse le mani alla serratura, un occhio si sporse e andò alla piazza: la divisa blu si allontanava, era un puntino e il buio la spegneva.
« Il segno di Dio... » disse il matto mentre le staccava le dita dal portone e abbassava i chiavistelli. « Domani » sussurrò fissandola.
Ma l'indomani il portone rimase chiuso e nessuno andò alla torre. Il matto spiò ogni anima e se qualcuno si avvicinava, strillava e la sua bocca mezza piena di fichi secchi storceva le parole. « Arrivano! » diceva. « No, no » mormorava subito dopo.
« Basta Nunù! » Poline corse sul tetto dove il vento fresco batteva la campana e si sporse. Dov'era la Decisione? Dove? Forse nei bisbigli che lei non poteva ascoltare, negli occhi che non poteva vedere.
Poi con il buio anche il matto si tolse dal foro. Nunù si rannicchiò sul letto, il libro color sabbia che gli copriva tutto il viso. E lei, distesa sul suo giaciglio, a fissare le tele e il bicchiere di acquavite a terra. Fu così che le loro palpebre si chiusero un po' alla volta.
Dormirono fino alla prima luce, fino al colpo secco che scosse la torre all'improvviso.
Nunù si rizzò, guardava ovunque e le mani stringevano la barba. « Aiuto » dicevano le labbra perché la voce restò bloccata in gola. Corse al foro e spinse dentro la testa più che poté. Si voltò subito verso di lei, la bocca spalancata che provava a parlare.
Poline saltò in piedi.
Qualcuno era entrato.
Si levò i capelli dal viso, sgranò gli occhi sulla piazza: l'alba l'aveva colorata di un blu languido, come le strade, come le case che ancora dormivano. Camminò fino alla scaletta e poi su fino in cima. Si avvolse nella mantella e spalancò la porticina. Girò attorno alla campana e arrivò fino al vuoto. L'aria fredda picchiava la pelle. Si sporse e li vide: i gendarmi, la moglie del sindaco. Fece un passo indietro, ancora un altro, finché il tetto finì e fu di nuovo dentro.
« Gli uomini vengono nella torre! »
Sbatté contro qualcosa. Il matto era accovacciato sull'ultimo gradino di ferro.
« Gli uomini veng... » Gli tappò la bocca.
Delle voci salirono fino alla stanza delle leve. Adesso c'era quella della donna bionda, adesso c'erano i grugniti del maiale.
Adesso il silenzio.
D'un tratto un picchiettio acuto venne avanti, diventava sempre più nitido, saliva i gradini accompagnato da uno strascicare lento di scarpe.
« Aiuto. » Nunù si mise in piedi e il ferro cigolò. Lei lo tenne fermo, gli si sedette accanto.
Il picchiettio avanzò ancora. Quel bastone entrò nella stanza delle leve.
E il matto si nascose dietro la schiena di Poline.
Il sindaco camminava nella penombra e il suo corpo grasso arrancava. Si arrestò al centro della stanza, si girò intorno. Sollevò la testa nuda al muro senza pietre e con la punta del bastone toccò il ritratto fresco di Pierre il gendarme. Subito si spostò sul dipinto a fianco, il ritratto del sindaco Jerome. Picchiò uno, due colpi leggeri e la tela oscillò. Dalla bocca un fiotto di saliva colò.
« Puah! » disse.
Il maiale andò al foro, si mischiava nel buio, un'ombra nera che respirava e tossiva. Guardò tra le pietre, ma subito tolse la testa lucida da lì. Si girò di lato, verso il mucchio di libri nell'angolo. Venne avanti. Nella mano libera stringeva qualcosa che loro non riuscivano a vedere. Le dita tastavano ed ecco che si accese una luce debole. Una fiammella sottile si alzò dal palmo, si avvicinò lenta ai libri. Gli occhi del sindaco brillavano, come la catena d'argento che pendeva dal panciotto liso. Sputò mentre avvicinava la punta del bastone alle due pile di libri. Ne sfiorò una, batté sull'altra che prese a muoversi, a muoversi. Ritornò dritta e allora un altro colpo la scosse. E un altro colpo, un altro ancora. Il mucchio si piegò in avanti, travolse l'altro, si spezzò. Crollò e i libri franarono, le copertine si aprirono al soffitto.
« No! » strillò il matto.
Poline lo tenne fermo.
« No! » E si levò in piedi.
La luce si alzò di scatto e la fiamma puntò dritto sulla scaletta.
« E così spiate » fece il sindaco barcollando. La punta del bastone picchiava a terra.
« No! »
« E io che pensavo... fuggiti! Ma dove? Un matto e una zoppa sarebbero già morti là fuori. La torre protegge, la torre è sicura... dico bene? »
Poline si accucciò, si schiacciò a sé, diventò piccola piccola.
« Dico bene? Dico bene? » ripeteva Nunù mentre il lume si avvicinava al suo sguardo acceso.
« Un matto e una zoppa... nient'altro che carne debole là fuori! » Adesso il sindaco era fermo. Sollevò la lampada: li guardava e il sorriso sul punto di esplodere rimase appena accennato.
Nunù prese a cantare.
« Ben detto matto! Gli uomini ti guardano... e lo sai perché? Perché la tua testa è vuota! Canta, canta che ti guardano perché hai la testa tutta vuota! »
La voce di Nunù crebbe, poi si abbassò di colpo. Disse: « Guardano anche il maiale... Il maiale grasso con il bastone ».
« Che hai detto matto? »
Ma Nunù si era già seduto, i palmi a tappare le orecchie e la testa che guardava a terra. Poline chiuse gli occhi, li tenne così ma era come se lo vedesse, il maiale con le labbra bagnate. Sentiva la saliva che bagnava le pietre e i grugniti suonargli in gola. Dal naso soffiava un respiro puzzolente e caldo. Ascoltò i rumori della torre che pulsavano frenetici: le gambe dei ragni negli angoli dei muri, le zampe sottili dei topi contro le pietre scivolose. Le scarpe al piano di sotto, pesanti e lievi, il corpo di Nunù che fremeva, le voci mischiate nella camera chiusa. L'umido impregnava l'aria ed era un fischio che stordiva. Ascoltò la scaletta cigolare: lamenti acuti e senza fine.
I grugniti diventavano vicinissimi.
Poline aprì gli occhi, aveva la punta del bastone davanti al naso. Una punta di legno scalfito, biancastro, che tremava sospesa.
« La torre vi salva ogni giorno. » Dalla bocca uscirono denti affilati. I fianchi dell'uomo straboccavano dai pantaloni troppo stretti. La punta sfiorò i loro nasi.
« Aiuto! » sussurrò il matto.
« Voi collaborerete, chiaro? » Il bastone andava da lei a lui, da Nunù a Poline. La faccia del maiale rifletteva la fiamma sottile che la segnava di ombre. gli occhi bui si incantarono sulle mani di lei che si agitavano sul petto.
« Chiaro? »
La zoppa annuì.
Allora il bastone si abbassò. Un po' alla volta si appoggiò su un ginocchio piegato del matto. La punta restò lì per un istante, poi si spostò dolce sull'altra gamba. Nunù la scosse, come a scacciare una mosca che non se ne voleva andare. Il bastone si sollevò di nuovo e si posò sulla gonna di lei, picchiettò sulla gamba forte e poi su quella debole. Sull'osso sottile si fermò. « Chiaro? » mugugnò ancora.
« Chiaro » rispose lei sottovoce. La testa cominciò a far male, il chiodo si infilzava lentamente dentro la nuca.
« Scenderete solo per suonare. Vivrete qua sopra, avrete orecchie che non ascolteranno, avrete occhi che non vedranno. Quel che sentirete non sarà affar vostro per nessun motivo e per nessun motivo vi immischierete. »
Poline alzò il viso e lo guardò. Sorrideva e sulle labbra lucide brillava una goccia di saliva.
La punta del bastone tornò a terra e il maiale si voltò. Sembrava fissare qualcosa al centro della stanza delle leve. Invece sbavò ancora: un fiotto di catarro schioccò sulle pietre. « La porta della camera di sotto rimarrà socchiusa... E voi non entrerete mai, per voi quella stanza non esisterà più. » Il sindaco si girò, la coda da maiale era un ricciolo corto e rattrappito. Per poco non inciampò nelle sue zampe. « Anche il portone da oggi rimarrà socchiuso. Chiaro? » bofonchiò scendendo dalla scaletta.
Poline si tirò su e la stanza delle leve prese a ruotare, ogni cosa diventò confusa e velocissima. Provò a reggersi sul corrimano ma si accasciò, con il matto che la sosteneva. « Dove sei Marie, dove sei? »
Nunù le accarezzò il viso.
« Dove sei? » Mosse appena le labbra mentre la fronte si copriva di un velo di sudore.
Poi parlò la voce gentile: « Marcel? »
« Non la trovi accogliente? » Il sindaco allargò le braccia.
La zoppa si fece forza e la guardò. La donna teneva le mani intrecciate sul grembo, lo sguardo era rivolto alle tele appese. Aveva un vestito nocciola, lungo fino ai piedi e senza drappeggi. Poco voluminoso, le disegnava i fianchi stretti e si stringeva sul collo in un fiocco scuro. Il sindaco le illuminava il viso mostrando la pelle bianca come la neve e i lineamenti delicati. Il naso piccolo, gli occhi stretti e lunghi, occhi da gatto.
« Andiamo. » Il maiale le premette una mano sul fianco.
« Il vecchio orologiaio e Pierre e Marie...» diceva la donna di quei dipinti. «... Il sindaco Jerome... » Smise di indicarli e si girò verso la scaletta. Guardò loro, fissò lei. Abbassò la testa. E un sorriso leggero le segnò le labbra.
Poline si nascose dietro la spalla di Nunù e da lì sbirciò ancora.
« Andiamo, Dio ci assisterà..» Il sindaco la condusse giù.
In un soffio scomparvero, il portone sbatté e subito la piazza bisbigliò. La zoppa corse al foro, vide il prete giovane benedire da lontano la torre. In molti si fecero il segno della croce, una preghiera si alzò e subito tacque.
Chiuse gli occhi. Adesso la torre era vuota e lei rimase a sentirla. Le pietre tornavano a riposare, respiravano l'una accanto all'altra, stanche per quelle voci sconosciute che ormai le tormentavano ogni giorno.
Toc, all'improvviso un rumore forte e sordo. Toc.
La zoppa e il matto non fiatarono.
Toc, ascoltarono ancora dal piano di sotto.
La bocca di Nunù era aperta e larga e il suo sguardo sbarrato. Lei gli mise un dito sulle labbra, lo tirò a sé. Insieme si alzarono e andarono al tavolo marcio.
Toc.
« Aiuto! » strillò il matto. Poi fece uno scatto e si affannò fino alla scala di ferro.
La zoppa gli fece segno di stare fermo. Di andare da lei.
Lui scosse la testa, le dita strette al corrimano arrugginito.
Toc.
Allora la gamba debole si abbassò, il piede curvo la spinse avanti di poco. Poline arrivò dove dall'alto poteva vedere una fetta di porta della camera chiusa.
Toc.
« Nunù » chiamò la zoppa dalla cima della scala di pietra.
Il matto era quasi arrivato sul tetto.
Poline aspettò con la gamba forte che toccava il primo gradino e guardò meglio. La luce del giorno filtrava da sotto il portone e svelava il pulviscolo denso.
« Zoppa, vieni! » continuava a dire il matto.
« No » rispondeva lei.
Così toccò a lui andare. E quando l'ebbe raggiunta la tenne stretta per la mantella.
« La zoppa resta qui adesso » fece Nunù.
Lei si liberò dalla sua presa e cominciò a fare un gradino per volta.
« No! » urlò il matto.
Toc.
« Aiuto! » strillò. Poi si toccò il naso e fece un balzo indietro. « La zoppa resta qui » esclamò sottovoce ma, quando la vide scendere ancora, la seguì.
Insieme arrivarono al terzo gradino e accompagnati dallo strascinio dei loro passi proseguirono fino in fondo.
La porta della camera era chiusa, uguale a sempre. Dietro, il silenzio era tornato. Aspettarono, ma il rumore non venne più.
« Nunù e la zoppa vanno sul tetto» disse il matto nell'orecchio di lei.
Poline si chinò lentamente. Guardò dentro la serratura. C'era una luce azzurra. Vide solo un angolo di muro e forse la parte del mobile vecchio. Il sole adesso filtrava in tutta la stanza.
Toc. Qualcosa frusciò. Toc.
Nunù le strinse un braccio. Restarono in ascolto. Una musica sottile risuonò, una melodia acuta di note lente e precise che via via acceleravano.
« Ah! » fece lui.
La musica divenne più forte.
« Ah! » Il matto la sollevò, la fece volare sulle sue spalle e la portò nella stanza delle leve e da lì fin sul tetto.
« Mettimi giù! »
« Il pirata con il violino è entrato nella torre! » La posò in terra accanto alla campana.
« Quale pirata? »
« Il pirata che ruba le monete d'oro e suona il violino ai pesci » disse tutto d'un fiato.
Poline si affacciò alla piazza sgombra. Le case erano accese, così aprì l'orologio d'argento. Segnava dieci minuti alle sette. « E' quasi l'ora del lavoro » disse.
« Il pirata è nella torre, è nella torre » sussurrava Nunù. « No! » strillò quando si accorse che la zoppa stava tornando dentro.
Ma Poline non si fermò e andò dritto fino alla stanza delle leve. Da lì guardò il matto sulla scaletta. « La campana » gli disse.
« Il pirata! »
« Non c'è tempo, verrò con te. »
Nunù scosse la testa.
« Allora ci andrò da sola. »
« La zoppa è leggera. »
« Ci proverò. »
« La zoppa è leggera » disse il matto con un piede al gradino più basso.
Scesero di nuovo. Poline avanti, lui appiccicato alla schiena di lei. Arrivarono alla fine dei gradini di pietra. E corsero. Passarono la porta chiusa e il portone, sbucarono nella stanza delle funi.
« Che il tempo li acciuffi...» Il matto si preparò a saltare.
« Non ancora» lo fermò lei mostrandogli l'orologio d'argento.
Mancavano pochi minuti.
« Il matto suona » sussurrò lui.
« No, il matto aspetta » rispose lei.
Nunù si schiacciò alla parete, in punta di piedi, con la testa si sporgeva e guardava la porta della camera chiusa. E anche la zoppa aspettava che il toc e quella musica tornassero.
« Il pirata dorme » fece il matto. « Ha la spada lunga.»
Poline si mosse.
« Ha la spada. » Nunù provò ad afferrarla per un braccio, ma lei continuò ad avanzare fino al portone.
La musica era tornata. La stessa melodia, un ticchettio meccanico, delicato.
Lei si avvicinò. Le pietre cercavano di trattenere quel suono e la porta pure, ma la zoppa lo ascoltava lo stesso e ora anche il matto.
« Aiuto » disse Nunù pizzicandosi la barba.
La gamba forte la spinse ancora e più lei andava incontro alla musica e più il suono era vivo. « Chi va là? » disse Poline debolmente.
Toc.
« Ah! » Il matto si guardò attorno, si staccò dal muro, saltellò con un dito sul naso e con i palmi incollati alle orecchie gridò: « Il pirata suona! » E restò immobile. « Ci ucciderà. » Si affrettò, velocissimo, e con un balzo si aggrappò alle corde. La campana prese a scuotersi e i colpi a coprire ogni cosa. Quando tacquero sentirono quella voce: « Facciamo presto » disse il capo dei gendarmi oltre il portone.
Nunù abbracciò Poline e la portò lassù. L'appoggiò sul letto e insieme sentirono chi entrava e la camera chiusa che si apriva. Sentirono la porta sbattere dietro di loro e i brusii debolissimi e confusi. D'un tratto una risata. E la voce grossa del capo dei gendarmi.
Il matto si coprì con il lenzuolo fino al naso. Solo gli occhi si vedevano, occhi sgranati che parevano di vetro. Lei li osservò, poi si voltò al foro.
« Se ne vanno » disse.
I due blu uscirono dalla torre silenziosi. Uno di loro aveva una cassetta di legno vuota nelle mani. Tutt'intorno le case di R. li seguivano attente.
Per tutto il giorno dalla camera chiusa i suoni continuarono a salire improvvisi.
« Aiuto » diceva il matto ogni volta che la melodia arrivava alla stanza delle leve.
« E' il pirata col violino... »
Poline scendeva di qualche gradino e puntava un orecchio verso la porta chiusa.
« Chi c'è? » chiese dopo un rumore più forte degli altri. Poi la musica ricominciò.
Allora corse veloce al tavolo marcio, dal cassetto tirò fuori un vecchio foglio di carta gialla e dei pastelli. Scarabocchiò la piazza e le case di R., prese la stampella e tornò giù. Ora dietro la porta chiusa non si muoveva una mosca. Poline si chinò e fece scivolare il foglio attraverso la fessura. Poi andò nella stanza delle funi e si ritrasse alla parete, un occhio a spiare là in fondo.
Ascoltò dei passetti piccoli. Un fruscio. Il disegno sparì dal pavimento. Si sporse ancora. Sentì battere, un bagliore filtrò da sotto la porta. Poline avanzò e ora ascoltava una voce flebile seguire la musica.
Altri passi.
Il foglio spuntò di nuovo dalla fessura, tornò fuori piano piano.
Poline aspettò. Un fremito nello stomaco la fece indietreggiare, la schiena e le gambe ebbero un sussulto. Aspettò ancora. Le venne freddo, si avvolse nella mantella ma i brividi le scuotevano la pelle. Chiuse gli occhi e andò. Arrivò alla porta e con due dita prese la carta gialla. Risalì e quando raggiunse il tavolo marcio, Nunù sollevò la testa dal lenzuolo.
La zoppa accese la lampada e il matto fu subito lì. Nel disegno al centro della piazza si vedeva uno scarabocchio nero. Avvicinò il foglio al viso.
C'era una figura con le gambe e i capelli lunghi. Era una donna distesa. Intorno aveva come dei cerchi grandi e piccoli e da ognuno spuntavano due linee più lunghe.
« Il disegno del pirata » sussurrò Nunù con un dito sul naso.
Allora lei prese il pennino dal ripiano e lo bagnò due volte nel calamaio. Disegnò la zoppa e il matto proprio sotto la torre dell'orologio. Tutti e due alti uguali, uno con i capelli corti, l'altra con i capelli lunghi. Tre gambe in tutto.
« No! »
« Cosa c'è Nunù? »
« Il pirata è prigioniero nella torre perché ha rubato le monete d'oro! Il pirata non deve guardare i disegni della zoppa... » disse Nunù.
« Non è un pirata. »
« Non deve guardare i disegni della zoppa! » le sussurrò e annuì.
Poline si alzò e con la lampada andò alla scala. Ridiscese, raggiunse la porta e nella fessura infilò il disegno che le venne preso all'istante dalle mani. Strappato via.
« Ah ! » fece il matto dietro di lei.
Poline arrancò su per i gradini e con Nunù si nascose dietro il muro. Un occhio ciascuno, per sbirciare laggiù, dove la lampada dimenticata era rimasta a illuminare.
All'improvviso il disegno sbucò di nuovo. La porta lo sputò fuori.
Nunù scosse la testa.
Lei restò zitta, poi si aggrappò ai chiodi arrugginiti.
« No... » mormorò il matto.
Ma Poline scese. E quando fu lì afferrò il foglio, un attimo, e con il disegno in mano tornò al tavolo marcio.
Il matto accese la lampada sul ripiano, l'avvicinò alla carta. Ora una donna uguale a quella distesa era al centro della piazza, sotto la torre accanto a loro. Stava in piedi, i capelli lunghissimi. Stringeva una gonna a metà gambe e in mano portava una specie di quadrato.
« I pirati hanno i capelli lunghi » disse Nunù con la voce calma.
La zoppa osservò meglio. La donna nel foglio le era a fianco, gli occhi due puntini e la bocca una linea dritta. Le gambe ricalcate più delle altre parti del corpo. E il quadrato nelle mani finiva con un tratto all'insù.
Poline lasciò il disegno sul tavolo. Tornò a spiare il piano di sotto dalla cima della scala. Nunù da uno spigolo del muro, lei dall'altro. Non sentivano che quella musica e voci concitate dalla piazza. Così la zoppa si precipitò al foro e vide gli abitanti di R. parlare fra loro nel tempo che precedeva l'ora del riposo.
« Aaaahhhhh! » strillò il matto, e quello fu il grido più forte che avesse mai riempito la torre. « Ah » e l'urlo morì a metà.
Poline si voltò di scatto verso il tavolo marcio, il matto era a terra e indietreggiava con i talloni e con le mani. Aveva la bocca aperta, cercava di far uscire il fiato. Sbatté la schiena contro il catino pieno di acqua. Provò lo stesso a continuare, il catino lo frenava ma lui continuava e l'acqua schizzava. Gridò, lo sguardo sbarrato in fondo alle scale, la voce un lamento sempre uguale.
Poline avanzò e si girò dove lui guardava. Non vide nulla. Allora si acquattò e strisciò fino allo spigolo del muro per spiare il piano di sotto.
« Non fai più il disegno? » disse una voce.
Lei sgranò gli occhi all'ombra.
« Non c'è niente sotto la porta » disse una figura minuta coperta dal buio debole.
Poline sgattaiolò dietro la parete mentre la musica cominciava a suonare più forte di tutte le altre volte. Aspettò, la guancia che premeva contro la punta di una pietra. Poi con un occhio tornò a guardare.
La figura aveva i capelli biondi che finivano sulle spalle e un po' sul petto. E quelle labbra, sottili e quasi viola, dritte. Nelle mani una scatola di latta che rifletteva la luce tenue della camera chiusa.
Poline saltò indietro, in quell'attimo la musica finì.
« Non disegni più? »
Cercò la stampella, la trovò al tavolo marcio, e con essa afferrò anche la lampada. La luce si allargò all'inizio dei gradini e ancora più in là fino a metà scala.
« Colette » sussurrò la zoppa.
« Chi ti ha detto il mio nome? »
Vista dal foro la bambina le era sembrata ancora più piccola.
Poline si sporse dal muro. « Ti ho sentito chiamare » sussurrò.
« Hai le orecchie grandi? Fammele vedere. »
La zoppa fissava le mani della bambina. Mani piccole, giravano svelte la manovella di ferro che spuntava dalla scatola di latta. Lì, da quel quadrato, usciva la musica. E le note suonarono di nuovo, mentre la zoppa avvicinava la lampada a quel viso pallido e dolce.
« Non vedo bene. »
Poline rimase in equilibrio all'inizio della scala.
« Ma non hai le orecchie grandi! » Lo sguardo della bambina scivolò in basso e si alzò ancora. « Mio padre ha una banda vera tutta per sé che suona quando vuole lui. E' la verità. »
Poline annuì.
« Questa invece è la mia banda, non si vede chi c'è dentro, ma basta girare la manovella e lei suona. » Mostrò la scatola di latta. E continuò: « Perché il tuo sposo ha paura della mia banda? »
« Lui non è il mio sposo. Non gli pia... » Si aggiustò la gonna fino alla caviglia. « E' che non gli piace la musica. »
« Perché non gli piace la musica al tuo sposo? »
« Non lo so perché. » La zoppa abbassò la fiamma. « Lui non è il mio sposo. »
« Chi è allora? »
« E' il mio amico. »
« Perché te ne vuoi andare via da lui? »
« Non me ne voglio andare via da lui. »
La bambina rimase zitta. Appoggiò la scatola in terra, poi si avvicinò al primo gradino. « Perché gli dici addio? »
« No » disse la zoppa.
Colette venne avanti. « Il tuo amico come si chiama? »
Poline restò zitta. « Nunù » disse poi.
« E' matto, vero? L'hanno detto i maestri che è matto, e anche i miei compagni e Sophie dicono che è matto e che la sua testa è tutta vuota. » Salì il gradino.
La zoppa fece un piccolo saltello indietro. Pensò alla figlia della bottegaia.
« Anche mio papà dice che è matto. Io l'ho visto, ha i capelli dritti e urla e scappa via perché ha paura della mia banda. Tu non hai paura della mia banda? »
« No... mi piace... mi piace la tua banda. »
« Vuoi farla suonare? » Raccolse la scatola e gliela porse.
Lei scosse la testa.
« Come ti chiami tu? » chiese la bambina.
« Io... Poline... mi chiamo Poline.»
« Io mi chiamo Colette, mio padre è il sindaco e ha una banda tutta per sé. »
La zoppa appoggiò la stampella contro il muro. Il piede curvo scese piano, coperto dalla gonna. Allungò la fiamma. Adesso gli occhi chiari della bambina brillavano. «Anche qui c'è una banda» fece con la voce rauca. Con un dito segnò verso il soffitto, un dito che tremò.
Colette alzò la testa. « La suoni tu? »
Disse no. «Nunù... La suona quando glielo dico, si attacca alle corde perché non ci sono manovelle. » Indicò la stanza delle funi.
Colette guardò lì. Poi corse nella camera chiusa, sparì in un attimo e in un attimo ricomparve. Corse per i gradini, era più vicina, le mani giunte si fermarono prima di sfiorare quelle della zoppa. « Lo vuoi? » esclamò e aprì le dita.
« Oh. » La gamba forte spinse la zoppa indietro. « Non ho fame, non ho fame » sussurrò mentre fissava i due biscotti di zucchero in quei piccoli palmi bianchi e stretti.
Colette spalancò gli occhi. Si aggrappò a un chiodo arrugginito pronta a scendere di nuovo, quasi scivolò.
« Solo uno. » Poline si avvicinò. E lo prese come lo rubasse.
Colette mise in bocca l'altro. Masticò e i pezzetti del dolce le confondevano le parole: « Me lo hanno portato i gendarmi prima e mi hanno portato molte cose buone. Sono gli amici di mio padre e sono anche amici miei. Li conosci tu? »
Annuì. « Conosco Pierre della casa bianca. »
« E' il papà di Sophie! »
Annuì ancora.
« Sophie dice che tu i dolcetti non li mangi. E dice che neanche il tuo amico li mangia. Dice che mangiate i bambini e basta. Ma non è vero, io lo so. Gli uomini non mangiano gli altri uomini sennò muoiono avvelenati. »
« Mi piacciono i dolci di zucchero. » Poline diede un morso.
La bambina avanzò e guardò il matto che si era seduto sul gradino più alto.
« Buonasera » gli disse.
« Aiuto! » Nunù con un balzo scattò in piedi. Poi si bloccò, pronto a uscire.
« Non ho la banda con me. » Lei gli mostrò le mani vuote e camminò verso di lui.
Il matto si mosse ancora. Restò immobile di nuovo quando anche lei lo fece.
« Non ho portato la banda! » strillò lei.
« Il violino del pirata! » disse Nunù e prese a cantare.
« Cosa canti? »
La voce del matto si alzò.
« Cosa sono questi? » domandò la zoppa con il foglio di carta giallo in mano.
Colette si voltò. Poi andò al tavolo marcio. Il pollice della zoppa ricalcava i cerchi con le gambe al centro del disegno.
« Sono gli animali del bosco. Lo scoiattolo. L'orso. Il riccio. Io sono il loro sindaco. »
« Gli animali del bosco... » Adocchiò il foglio. « E tu non hai paura degli animali? » disse con un filo di voce.
« No. Loro fanno quello che voglio io e mantengono tutti i segreti. »
« Quali segreti? »
« I segreti miei. » Colette prese il disegno e le indicò la figura in orizzontale.
« Questa sono io. »
« Perché sei distesa? »
« Gli animali del bosco vanno via se li guardi. Solo se dormi e hai gli occhi chiusi puoi essere il loro sindaco. Se li guardi tornano sui monti e non ti ascoltano per niente. »
Poline tacque.
All'improvviso la bambina fissò la zoppa in basso. Le andò vicino, più vicino. Bagnò il pennino nell'inchiostro, lo passò sulla carta. Poi chiuse gli occhi e bisbigliò qualcosa. « Ho detto agli animali del bosco che parlo con te. E un segreto che loro mantengono e lo devi mantenere anche tu, e anche il tuo sposo. Va bene? »
« Va bene. »
« Quando suoni la campana dell'ora del riposo? » chiese mentre disegnava sul foglio.
Poline non rispose.
« Quando suoni la campana? » chiese ancora.
La zoppa prese l'orologio, lo aprì. « Tra poco, manca un'ora. »
Finì la frase e Colette raggiunse le scale. Scese e tornò nella camera chiusa. La porta sbatté.
Lo sguardo di Poline si abbassò al foglio. Adesso nel disegno lei aveva due gambe. La seconda, più corta, spuntava di poco dalla gonna. Un tratto sottile, una linea leggera d'inchiostro fresco.
Il matto si acquattò e scese nella stanza delle funi senza neanche un respiro. Si appese alle corde e lo sguardo non si muoveva dalla porta della camera chiusa e dalla luce che filtrava dalla serratura.
Così la campana suonò l'ora del riposo. I rintocchi battevano, ma le case rimanevano accese con le porte socchiuse. Nessuno li ascoltava, neanche nella casa del sindaco, neanche in quella bianca della bottegaia. La piazza rimaneva sveglia, mormorava di brusii che la notte non acquietava.
Nunù urlò che le corde ancora salivano. Un solo grido che accompagnò l'ultimo rintocco. E subito dopo il portone della torre iniziò a cigolare.
Poline spinse la fronte contro il foro ma nessuno entrava. Aspettò. Poi vide Colette uscire dalla torre, correre ai lati della piazza, passare davanti ai muri, sotto le luci. I capelli volavano, dietro le sue gambine leste. La zoppa la seguì fino alla casa del sindaco, fin quando la bambina spinse la porta e scomparve là dentro. Fu allora che la piazza si addormentò di colpo. I lumi si abbassarono in un istante, poi si spensero mentre le case venivano chiuse.
« Il pirata col violino è andato via! » gridò il matto dalla scala di pietra. Le arrivò vicino, le scosse un braccio. « E' andato via. »
Poline non rispose. Restò al foro mentre lui si accovacciava sotto il lenzuolo. Pensò a Marie e a Pierre, che dalla piazza poco prima avevano salutato verso il foro e avevano fatto cenno di aspettare. Pensò alla Decisione che a loro non era ancora arrivata.
« Il pirata è fuggito » sussurrò Nunù da sotto il lenzuolo.
Lo guardò. Poi prese la stampella, andò al tavolo marcio e giù per la scala fino alla camera chiusa.
Il matto la seguì in punta di piedi. « Non si può, la zoppa non può » diceva lui.
La porta era scostata. C'era uno spiraglio di buio tra il muro e il legno. La punta della stampella batté sulla serratura, spinse. La camera si aprì.
« No » sussurrò il matto.
Poline non si fermò. Il lume mostrò il comò e la cassettiera nell'angolo, un lettino al centro della stanza con sopra una coperta lilla sottile e un'altra verde sotto un cuscino a fiori.
Nunù le restò dietro.
Un tavolino era appoggiato alla parete più grande. Avvicinò la lampada: c'erano delle matite colorate e dei fogli di carta bianca e sotto un quaderno rosso. Accanto, una sedia in miniatura. Il piede forte sbatté contro qualcosa.
« Aiuto » esclamò Nunù.
La scatola di latta finì sotto il lettino. Il lenzuolo era cosparso di dolci di zucchero e c'era anche un piatto con le patate. Una brocca colma di acqua in terra. Il matto si avvicinò all'angolo più lontano della stanza, accanto al comò: lì vide degli stracci e un catino di legno. Si chinò a guardare. « Merda del pirata! » disse con la bocca all'ingiù mentre correva verso Poline.
La zoppa si guardò attorno. La finestrella aveva il vetro pulitissimo e le pietre lisce quasi luccicavano.
Appoggiò la lampada sul tavolino, sfiorò le matite colorate, ne toccò una e poi un'altra. Si dovette fermare quando il matto le frenò il braccio con la mano.
« La zoppa non può. »
« Nunù... » fece lei.
Le matite erano tutte ordinate accanto al quaderno. La fiamma si rifletteva sulla copertina che aveva degli uccelli bianchi disegnati e un cielo rosso. Le dita della zoppa lo sollevarono, nella prima pagina c'era scritto « Colette » in giallo, grande. Voltò il foglio ed ecco il bosco con gli animali e le parole che lo descrivevano, che dicevano degli alberi, delle piante e delle bestie buone. Voltò ancora una pagina, poi un'altra, e trovò scritte e disegni maldestri.
« Un foglio più grosso » fece Nunù.
Le dita di Poline l'avevano già preso. Era un biglietto di carta spessa e ruvida, piegata su se stessa. Poco più piccolo di una pagina del quaderno e con gli angoli rovinati. Lo sollevò, lo avvicinò alla luce.
Nunù si abbassò.
La zoppa aprì il cartoncino. Poche righe di una bella scrittura:
La strada vicina che
mi porta lontana
da te
da loro che non hanno misericordia.
Non mi resta che andare
nel buio un saluto
l'addio
che non devi vedere.
« Il pirata va via... » mormorò il matto con il palmo sulla bocca. « Il pirata dice addio. »
Poline osservò le prime pagine del quaderno. « La scrittura non è di bambina » disse.
Il matto si alzò in piedi. « Gli uomini... »
« Cosa? » domandò lei.
« Gli uomini » parlò piano, un orecchio al muro.
Il portone scattò.
Nunù afferrò la lampada. Si voltò dappertutto, poi avvinghiò lei alla vita, la trascinò dietro il comò. Spense la fiamma.
« La porta della camera è aperta... » disse una voce.
« Non pretenderai anche che la chiuda...» disse un'altra voce.
Una luce correva sui muri e per terra.
« Non ha mangiato. »
I passi venivano avanti.
« Non potrebbe dormire nella torre? Tornare a casa è un rischio. »
« Volere della madre... altrimenti non avrebbe mai accettato che la figlia... E poi, quando la valle saprà, verranno dalla città e da Lacroix, entreranno nelle nostre case per chiedere, faranno visita al sindaco ogni giorno. Dovunque potrebbero... Ma qui no, qui non verranno di certo. »
« Rischioso davvero però. »
« Abbi fede e tutto andrà bene. »
La luce si allontanò di poco. Il matto lasciò la zoppa che aveva stretto alle spalle per tutto il tempo.
« Ma secondo te... è avventata la Decisione?»
Due scarpe lucide erano lì, accanto al piede della cassettiera. Non troppo lunghe, nerissime, la fiamma si rifletteva sul dorso lucido.
« Non farti domande. E la strada che Dio ci ha indicato. E questo deve bastare. »
« Ma non è troppo... »
« Deve bastare. Restituirà a R. il lustro, dobbiamo avere fede. »
« E se... se dovessero...»
« A chi crederesti tu? A un sindaco e a un paese intero... o a una zoppa e un matto?»
Ora la voce grossa disse di portare via il piatto con le patate ormai fredde.
« Posso prenderle? »
« Portatele a casa, sì. Riscaldale con le carote e un po' di vino. »
Subito dopo la porta sbatté, come il portone, e la chiave strisciò dentro la serratura.
« Non chiudere. »
« Solo socchiuso. »
« Perché la bambina non perda tempo. »
Così la chiave rigirò, il chiavistello si sollevò e quei passi si allontanarono.
Poline e Nunù rimasero nascosti. Poi il matto accese la fiamma e vide la zoppa inerte.
« Il pirata è il segno di Dio... » biascicò Nunù.
Lei non rispose. Restò con lo sguardo a terra.
« Zoppa » disse il matto e la scrollò.
Poline si alzò e tornò al quaderno, diviso a metà dal biglietto di carta spessa. Lo aprì dalla prima pagina. Nei disegni c'erano i maestri, i bambini della scuola, R., la torre con due figure colorate in cima. L'ultimo disegno era quello della donna bionda che aveva i capelli lunghissimi e sorrideva con le labbra tutte rosse. Prendeva per mano la bambina, in mezzo al bosco, mentre gli animali le guardavano dagli alberi.
Chiuse il quaderno. Le sue dita tornarono al biglietto di carta spessa. Lesse a voce alta ogni parola. E mentre fissava quelle righe la fiamma si esaurì.
« Da loro che non hanno misericordia» continuò a leggere, le parole scritte sul buio.
Successe che ancora era l'alba. Per primo si aprì il portone, poi qualcuno entrò.
La zoppa si alzò dal letto e andò sul pianerottolo, sporse la testa e sentì l'aria fresca della piazza frusciare nei cunicoli. La porta della camera chiusa era di nuovo accostata.
« Il pirata è tornato? » disse il matto dal letto.
Poline scese il primo gradino e quando arrivò al piano di sotto si chinò alla serratura. «Loro che non hanno misericordia » disse tra sé ancora una volta. Poi sollevò la testa alle scale e vide il matto che la fissava. Spinse la porta e i cardini cominciarono a cigolare. Le ombre erano deboli nella stanza, l'alba si appoggiava sulle pareti e la finestrella era colorata di un blu meno scuro.
« Ho sonno » disse la voce.
Poline non si mosse.
« Ho sonno, ho sonno » ripeté.
« Scusa... Colette. » Poline saltellò indietro e richiuse la porta. La sua mano rimase sulla maniglia fredda per un po'. Poi si aggrappò ai chiodi arrugginiti che la riportarono dal matto.
« Dorme» disse.
« Dorme anche Nunù » disse lui. E con due balzi raggiunse il suo letto.
Da dietro arrivò un alito di vento leggero.
« Ho molto freddo. »
Poline si girò. Il viso della bambina era stretto nella coperta verde. Quella lilla sulle spalle scendeva fino a terra.
« Ho freddo. »
La zoppa si precipitò al letto. Tirò via la sua coperta di pezze diverse cucite assieme. La infilò sotto il braccio e cominciò a scendere.
Colette le venne incontro e quando le fu vicina gliela strappò di dosso. « Com'è colorata, è bella » disse mentre tornavano insieme al piano di sotto. Poi entrò nella
camera.
« Poline» chiamò la bambina con la voce debole.
« Poline. »
La zoppa arrivò in fondo, allungò la testa e la vide: era rannicchiata e le coperte la coprivano a tratti. La lampada illuminava i piedi che si strofinavano l'un l'altro, le caviglie bianche e sottili erano strette nelle calze leggere. « Le coperte non stanno ferme. »
La zoppa andò da lei, prese la coperta lilla e la stese ai suoi piedi. Prese quella verde e la tirò su fino alle sue guance lisce. Per ultima, sopra tutto, la coperta di pezze diverse. « Stanno ferme adesso » disse mentre girava la rotella della lampada. La luce calò appena, fuori il cinguettio continuava a crescere.
« Si » mormorò la bambina.
Poline raggiunse la porta e intanto la guardava, uno scricciolo che si cullava nel suo nido.
« E' stato mio papà a regalarti la campana? » fece quella voce piena di sonno.
La zoppa si bloccò. « Tuo nonno me l'ha regalata. »
« E stato il nonno Saliou? »
« Si, mi ha fatto venire lui qui. »
« Insieme al tuo sposo? »
La zoppa fece un passo avanti. « Anche Nunù, si. »
« Perché ti ha fatto venire qui? »
Poline rimase zitta. E pian piano si diresse verso la sedia in miniatura. La scostò dal muro e si sedette. « Mi piaceva la campana più che a tutti gli altri e lui lo sapeva.»
« E i tuoi genitori sono venuti con te nella torre? » La bambina aprì un solo occhio. Luccicava nel buio leggero.
« Loro non sono venuti nella torre. »
« E allora dove stavano loro? »
« Non c'erano più. » Poline aspettò un attimo: « Si erano addormentati ».
Colette sollevò la testa e le coperte scivolarono prima sulla schiena, poi di lato. La zoppa allungò le mani, le afferrò prima che toccassero terra. Gliele adagiò di nuovo sopra.
« Si erano addormentati? » fece Colette.
« Si » disse Poline.
« Erano vecchi? »
Scosse la testa. « Erano stanchi. »
La luce provava a entrare dalla finestrella, batteva contro il vetro opaco e grosso.
« Lavoravano molto? »
Annuì.
« Che lavoro era? »
« La filatrice. »
« E il tuo papà? »
« Il sindaco. » Poline cercò nelle tasche. Trovò la catenina, la tirò fuori finché l'orologio uscì e rimase sospeso a mezz'aria. Brillava, girava piano su se stesso.
La bambina si tolse i capelli dal viso. Guardò l'orologio, poi le sue dita si allungarono da sotto le coperte. Lo sfiorarono, lo strinsero. « Il tuo orologio, il tuo orologio ha la scritta! » esclamò.
« Apparteneva a mio padre. »
« Tuo papà ha la scritta... tuo papà era anche lui un sindaco. »
« Lo è stato prima di tuo nonno Saliou. »
« Tuo papà era come mio papà...»
La bambina scese dal letto, le andò vicino. E la schiena della zoppa diventò dritta e rigida. Il piede curvo si incastrò sotto la coscia.
« Lui dice che sarò il primo sindaco femmina di tutta la valle. » Fece una piroetta e le si mise di fronte.
« Ma tu lo sei già, tu sei Colette sindaco degli animali del bosco. »
« Si! E lo vuoi sentire un segreto? »
Annuì.
« Loro mi ascoltano anche se non mi vedono. Quando sono stesa e chiudo gli occhi, io parlo e loro mi ascoltano e fanno quello che voglio. »
« E cosa dici agli animali? »
« Che si devono comportare come si deve. Che non devono spaventare le persone che passano nel bosco. » Si buttò al collo della zoppa, le manine si aggrapparono alle spalle e la carezzavano.
Poline tenne le braccia lunghe ai fianchi. « Sono sicura che ti ubbidiscono » disse, poi l'avvolse dolcemente.
Colette rimase pensierosa. All'improvviso parlò. « Perché hai detto addio al tuo sposo? »
Poline si voltò verso di lei.
La bambina era chinata a prendere la scatola di latta. « Perché? » domandò ancora e intanto girava la manovella. La musica tornò.
La zoppa andò con gli occhi al quaderno rosso con gli uccelli bianchi. « Addio? »
« Hai scritto che gli dicevi addio e che lui non doveva vedere. »
La musica era più lenta, stava quasi per spegnersi.
« Non sei andata via dal tuo sposo, l'hai scritto ma non sei andata via. » Colette appoggiò la scatola di latta e corse accanto alla zoppa. Alcune matite caddero in terra e le sue piccole dita si infilarono tra le pagine sottili. Tirarono fuori il biglietto di carta spessa e lo portarono dove la luce batteva di più. A fatica la sua voce lesse quelle righe.
« Non l'ho scritto io. »
La bambina non fiatò.
« Non è mio » disse Poline mentre scuoteva la testa.
« Si invece » insistette Colette girando attorno al letto. Si bloccò di fronte al comò. « L'hai nascosto qui. »
Toc, fece uno dei cassetti quando si aprì.
« No, no. »
La bambina chiuse il cassetto. Toc. Lo tirò fuori di nuovo: « Proprio qui ». E mostrò la carta chiara che ricopriva il legno all'interno, da un lato era appena scostata. Lo richiuse.
« Non è mio. »
« Non avere paura, io non li dico i segreti. Io conosco i segreti di tutti gli animali del bosco. »
« Non è mio. » La voce uscì acuta, poi si calmò. « Il comò non è mio. »
« Di chi è allora? »
Poline non rispose.
« Tu abiti qui, il comò è tuo. »
« Prima ci abitava un'altra persona. »
« Chi era? »
La mano della zoppa si alzò, strisciò la camicetta, andò al collo. Trovò la catenina, trovò la rosa. «Un vecchio maestro di R. » disse, i petali consumati sulle dita.
« Toc! » gridò il matto.
Si voltarono alla porta aperta, non c'era nessuno.
« Toc è la spada del pirata! Aiuto! »
La zoppa uscì dalla camera chiusa.
« Il pirata ha una spada nascosta che uccide la zoppa. » Nunù era là in alto, sul primo gradino, un braccio teso a lei.
« Non ha una spada e non è un pirata. »
« Toc !»
Poline gli fece cenno di seguirla.
Lui scosse la testa.
« Nunù » disse la zoppa mentre cominciava a salire.
« Nunù » fece la bambina che sbucò dalla camera.
« Aiuto! Il pirata guarda Nunù. »
La zoppa disse di fare silenzio.
« Non sono un pirata io! » Colette lo fissò seria dalla soglia, apparve e scomparve in un soffio.
Il matto non smetteva di annuire. Si fermò appena la zoppa lo prese per mano per portarlo laggiù. Diceva no, no, ma intanto la seguiva. Arrivarono al piano di sotto e la mano di lei lo trascinò dentro la stanza.
Subito si coprì gli occhi con un braccio, poi lo abbassò piano e vide la bambina seduta sul letto. Teneva stretta la scatola di latta, si passava tra le dita il biglietto di carta spessa.
Nunù si appiccicò al muro.
« Sono il pirata... Uhuhuh! » disse la bambina con gli angoli della bocca che salivano.
« Ah! » strillò il matto e scivolò a terra con la testa tra le ginocchia.
Colette rise e scese dal letto. Fece un passo e un altro e quando fu vicino al matto gli allungò la scatola di latta. « E' la mia banda. »
Nunù non si mosse.
« Vuoi provare a suonarla? »
Il matto sollevò un po' la fronte, un po' gli occhi. Li sgranò per un attimo, poi guardò la zoppa sulla sedia in miniatura.
« Devi girare la manovella... Così... » E mimò il gesto. Quando gli lasciò la scatola, Nunù ritrasse le mani.
« Non sono un pirata » disse la bambina mentre gliela lasciava accanto. Poi tornò sul letto.
Lui prese la scatola di latta, la sollevò a mezz'aria. Sopra c'erano dei triangoli gialli e dei triangoli rossi tutti lucidi. La scosse e l'appoggiò sulle gambe. E cominciò. Girava e girava la manovella. Finì e la musica riempì la camera chiusa.
« Bravo! » esclamò la bambina.
E Nunù rideva a bocca spalancata. Ascoltò la melodia e la fece ricominciare mentre la luce là fuori cresceva e diventava alta. Lasciò di colpo la manovella solo quando lo vide sul tavolo. Il biglietto di carta spessa. Lo indicò mentre con gli occhi di nuovo sbarrati guardava la zoppa.
« Fai vedere a Nunù dove l'hai trovato » disse Poline alla bambina.
Colette corse al mobile e lo aprì per due volte. Toc, si sentì, toc.
« Il rumore della spada » disse Nunù stranito.
« Il foglio l'ha scritto il maestro vecchio che abitava prima nella torre » disse Colette intanto che tornava sul letto.
« Il maestro delle campane » farfugliò il matto.
Poi nessuno parlò più. Perché dalla piazza le voci erano diventate più d'una. Erano da tutte le parti, si facevano vicine.
« Papà... Didier... stanno arrivando» disse la bambina. «Andate via! Andate via!» strillò alla zoppa e a Nunù spingendoli fuori. « Andate via! »
E già loro erano sui gradini, il matto con lei addosso.
La zoppa li vide uscire poco dopo. Il sindaco e l'ometto erano rimasti nella camera chiusa per dieci minuti e le loro voci non si erano quasi mai sentite. Solo quella dell'ometto, una volta, una risata improvvisa e breve che era finita in un colpo di tosse. Poi era arrivata la carrozza a prenderli. Un colpo di frusta e avevano preso la via delle botteghe, mentre le case accese si preparavano ad aprirsi.
« Non è un pirata » aveva detto il matto.
« Non lo è » aveva risposto lei.
Così erano scesi di nuovo. E lì, davanti alla porta della camera chiusa, erano rimasti ad ascoltare la musica che ricominciava.
« Il maestro delle campane scrive i biglietti d'amore » sussurrò Nunù nell'orecchio della zoppa.
Poline scosse la testa. « Non l'ha scritto lui » mormorò.
Il matto annuì e si sedette accanto a lei sul primo gradino.
« L'ha scritto una donna. »
La fronte di Nunù si cosparse di rughe. Non si mosse più fin quando la musica finì e la bambina fece capolino dalla soglia. Allora scattò in piedi: « Aiuto » mormorò con un filo di voce. Ma non fuggì, fissò Colette che nelle mani stringeva un biscotto allo zucchero.
« Papà mi ha detto che sono brava e che quando sono qui io non ci sono. » Ne mangiò ancora e poi corse di nuovo dentro.
Poline sbirciò dalla porta e la vide seduta sulla sedia in miniatura, il quaderno aperto e una matita che scriveva. « Ti ha detto cosa, Colette? »
« Ti piace? » La bambina sollevò il foglio.
Lei afferrò la stampella e si avvicinò. C'era un disegno confuso, la figura di un uomo, anzi due, uno alto e uno basso. « Chi sono? »
« Lui è il mio maestro » e indicò quello più alto. « Lui è Didier, l'amico di mio papà» e la punta della matita toccò l'altro.
« Disegni bene. »
« Didier mi ha portato molte cose buone. » Indicò in basso, una cassetta di legno che straboccava di cartocci.
« Fichi secchi? » disse il matto da dietro la zoppa.
La bambina rovistò. Prendeva un cartoccio, guardava dentro e lo richiudeva. Sollevò quello più piccolo, lo allargò appena. « Ecco » disse e allungò un fico raggrinzito.
Nunù lo prese e lo mise in bocca. Socchiuse le palpebre mentre masticava e non si accorse che Colette gli era andata ancora più vicino. Fece un piccolo salto quando la vide lì, ma già lei gli aveva preso la mano.
« Non fare male a Nunù » fece lui.
Colette gli mise altri due fichi sul palmo. « Due e basta, sennò finiscono subito. »
Con lo sguardo che non si spostava da lei, Nunù iniziò a masticarli, li masticava e la fissava, poi fece un passo di lato e si sedette nell'angolo. Teneva la schiena tutta rigida, come fosse seduto sulle spine.
« Sono dolcissimi, ne vuoi? » Offrì il cartoccio alla zoppa.
Lei fece cenno di no.
La bambina tornò sulla cassetta di legno. « Una mela verde la vuoi? »
« No. »
Colette la fissò sorpresa. Si tirò su e con due biscotti, uno marrone e l'altro bianco, si accovacciò a fianco del matto. Non fece in tempo a offrirgli quello più scuro che già lui l'aveva in bocca.
« A Nunù piace il cioccolato. »
« Questi biscotti li prepara Didier, me li porta sempre a casa e quando li cucina lui si mette un cappello grandissimo che gli scende fino agli occhi. Didier il cappello è più grande di te! Io glielo dico sempre e certe volte lo aiuto con la pasta e le uova.
Il matto inghiottì a fatica.
« E' un bravo cuoco » fece la zoppa.
« Si. Alla scuola noi lo chiamiamo il mago dei dolci. Prima Didier e papà mi hanno detto che sono brava, me lo hanno detto due volte. » La bambina finì il biscotto.
« Brava perché stai nella torre tutto il giorno? »
« Si e perché conosco le regole. »
« Quali regole? »
« Le regole. All'alba nella torre. All'ora del riposo a casa. Parlo solo con Didier, papà e i gendarmi blu. Non devo avere paura. E nella camera della torre rimango tutto il giorno anche se io non ci sono. »
« Anche se io non ci sono? »
« Si, io non ci sono. Lo ha detto papà: Tu nella camera non ci sei. »
« Però il pirata parla con Nunù e la zoppa » disse il matto.
« Non devi dirlo, è un segreto! »
« Non lo diremo. Colette » la tranquillizzò la zoppa.
« E' vero che non lo dirai, dimmelo che non lo dirai » la bambina si aggrappò a una manica del matto.
« Nunù non lo dirà » esclamò lui senza guardarla.
La bambina lo lasciò e tornò al piccolo tavolo. « Papà ha detto che lui non può più venire, che neanche mamma può venire più nella torre. Che da oggi devo restarci da sola » disse all'improvviso con la voce che si faceva debole.
La bambina si alzò e camminò verso il tavolo: « Qui ci sono i compiti che mi ha dato il maestro ».
« I compiti? »
Colette cominciò a sfogliare il quaderno e si fermò su una pagina tutta scritta.
« Vedi? » Adesso la fissò.
Poline abbassò il viso al quaderno. Il foglio era riempito da dieci frasi in bella calligrafia.
« Il maestro le ha scritte. Ha detto che le devo ricopiare molte volte e anche disegnarle. E quando ho finito me ne fa scrivere altre. »
« E i tuoi compagni fanno lo stesso? »
« Si. Loro però sono alla scuola. Sophie al terzo banco e io al secondo. Io e Sophie siamo vicine di banco. Tu la conosci Sophie? »
« Conosco i suoi genitori. »
« Sono anche amici della mia mamma. Papà mi ha detto che oggi viene Pierre e mi porta un disegno che Sophie ha fatto per me. »
« Oggi? » chiese la zoppa con il respiro a metà. Finì di parlare e vide il matto che si era alzato in piedi. E subito lo imitò, e anche la bambina. Immobili, ascoltarono quei rumori che si avvicinavano.
« Aiuto » mormorò il matto.
« Via, andate via, andate via. » Colette spinse fuori la zoppa e il piede curvo di lei si incastrò dietro il tallone forte, era un legno morto che pesava. Poline cadde. Sbatté a terra e le pietre segnarono il ginocchio e le braccia.
« No! » disse Nunù e si sbrigò ad afferrarle i polsi, la sollevò e la trascinò per tre scalini. Poi si bloccò mentre la porta della camera chiusa sbatteva.
Dei cavalli passarono davanti al portone.
Poline si agitò, scese da quelle spalle e continuò da sola, lenta, la pelle delle braccia e della gamba che bruciava. Il matto la raggiunse al foro.
« I gendarmi rossi di Lacroix? » disse Nunù incredulo quando li vide.
Poline li osservò. Le giacche e i pantaloni rosso scuro, i drappi verdi sui cappelli che ricadevano da un lato. E le spade corte e le pistole, nella fodera marrone. Marie le aveva detto che le loro imprese erano celebrate dalla valle intera, per chiunque non esistevano gendarmi migliori. Si unirono ai blu di R. che li precedevano. Con loro c'era anche il sindaco e subito dietro si aprì una carrozza da cui scesero due ufficiali della città con il cappello e dei fogli stretti nelle mani. I gendarmi li scortarono fino alla casa del sindaco e mentre gli uomini eleganti entravano, loro rimasero fuori a sfregarsi le mani e a battere i piedi sui ciottoli.
« I rossi a R. » mormorò la zoppa tra sé.
Il sindaco uscì subito. Lo seguivano il capo dei gendarmi e l'ometto. E in coda due ufficiali con le braccia ancora più cariche di fogli e i visi coperti dai cappelli schiacciati sulla fronte. « Sono venuti da Lacroix e dalla grande città» sussurrò la zoppa e nell'uomo più alto intravide un sorriso, una smorfia felice che la donna bionda sulla porta ricambiò. Allora lui accennò un inchino, le baciò la mano e così fece l'altro uomo dopo che ebbe finito di parlare con il sindaco.
« Vengono nella torre » farfugliò Nunù. « Nella torre... »
Invece si diressero verso la via delle botteghe dietro ai blu e ai rossi, tutti dietro il sindaco. Dalle finestre chiuse gli abitanti li scrutavano, i loro respiri appannavano i vetri di piccole nuvole bianche. E pareva davvero che quegli sguardi fossero lì da sempre, da tutta la notte, e che gli occhi non si fossero mai chiusi. Poline spiò ancora quei cerchi di fiato che crescevano in un secondo e in un secondo si spegnevano, poi si fermò là, alla casa bianca. La guardò bene, i muri, la finestra di ombre e il vetro, senza segni. La spiò meglio, non vide nessuno là dietro. « Pierre » disse intanto che si allontanava dal foro.
Poline disegnò l'addio. La donna che andava via. Il viso chiaro e i capelli rossicci e il sorriso leggero. Come l'aveva vista per la prima volta nel quaderno dell'orologiaio, sul tavolo dei gomitoli. Come l'aveva dipinta nella tela appesa alla parete senza pietre. E tutte le volte che adesso le passava davanti, c'era quello sguardo che portava con sé la memoria del maestro delle campane, la ferita dell'addio.
Così quelle parole: « La strada vicina che / mi porta lontana / da te / da loro che non hanno misericordia. / Non mi resta che andare / nel buio un saluto / l'addio / che non devi vedere » Poline se le ripeteva ora che faceva strisciare il pezzetto di carbone sulla tela pulita. E il viso della donna pian piano cresceva, una riga e un'altra, e diventava quello dell'addio. Lei, con un vestito lungo che cercava di sollevare, la mantella che le avvolgeva le spalle e la testa. La notte intorno, la strada oltre l'Arco che la portava al monte. Poche cose nel fagotto di stracci. E le gambe leste. E gli occhi bagnati che si voltavano verso R. e poi più su, alla torre, un grigio sfumato che spiccava sopra i tetti, piccole chiazze di un ocra acceso. Laggiù lui, l'orologiaio, da qualche parte, forse una macchia di colore confusa che ancora non sa. La donna guarda la macchia, non se ne distacca ma deve, prima che lui, prima che loro guardino, prima che tutti vedano, l'addio.
« La moglie del maestro delle campane » disse il matto indicando il dipinto, al centro della stanza delle leve. « Dice addio perché loro non hanno misericordia » aggiunse mentre sfiorava i colori con un dito.
Poline annuì e lo guardò scendere le scale. Lo sentì arrivare in fondo, poi aspettò tre scatti dell'orologio. « Suona! » gridò una sola volta.
Così fu. E la campana batté i sette rintocchi. Il suono si appoggiava sull'aria e andava fuori, da chi lo attendeva. Ma quando la zoppa arrivò al foro la piazza era ancora deserta, le case erano aperte e la gente rimaneva sulla soglia.
E mentre Nunù salì a dirle che il pirata forse dormiva, Poline vide arrivare due uomini a cavallo. Li riconobbe, erano i figli del maestro della scuola. Raggiunsero un angolo della piazza, curvi sui loro animali sfiancati. Il sindaco uscì dalla casa rossa con la donna bionda, e solo in quel momento R. si fece avanti. Le case si spalancarono e una piccola folla si accalcò nell'angolo dove i due stavano tirando fuori da una borsa tre fogli grandi e arrotolati. Uno lo diedero al sindaco, gli altri li tennero per sé e cominciarono a leggere a voce alta.
« Il giornale » disse la zoppa stupita.
Adesso R. si strinse a loro ancor di più, chi ascoltava con le mani sul petto, chi si faceva il segno della croce. La lettura andò avanti, poi ci fu un brusio e la piazza si ammutolì. Fu allora che una squadra di gendarmi sbucò dalla via della scuola.
« I blu » disse Poline indicandoli mentre si avvicinavano alla torre.
« Pierre! » esclamò Nunù.
Pierre era rimasto indietro ad ascoltare tra la folla. Arrivati al portone i gendarmi si voltarono a guardarlo. Allora lui accelerò e la sua voce salì chiara. « Ne hanno scritto. »
« Leggeremo più tardi. Da oggi voglio quattro di guardia all'Arco, e due sempre qui » disse il capo dei gendarmi.
« E con i rossi di Lacroix come ci comportiamo? »
« Intendono aiutarci. Seppelliamo i rancori e uniamo le forze, hanno detto. E' un fatto troppo grave e una minaccia per tutti. Era esattamente ciò che R. voleva. Dunque torneranno ogni giorno, ma solo al tramonto, per loro l'Arco dovrà essere aperto. Vorranno entrare nelle case, faranno domande e noi lo permetteremo. E così varrà per gli ufficiali della città. Ma resteranno a R. per poco, al primo buio saranno già andati, quindi non avremo problemi. Intesi? »
Annuirono.
« Ora andate. Tu, Pierre, rimarrai qui con Luc » concluse il capo dei gendarmi. Il gruppo si disperse e i due si allontanarono di un poco.
« Non viene » mormorò il matto mentre si buttava sul letto, il primo libro del mucchio davanti alla faccia.
Poline continuò a fissare le divise blu che sotto il primo sole si schiarivano. Pierre disse qualcosa al gendarme basso, poi si incamminò verso la torre.
« Arriva » sussurrò la zoppa.
Nunù la spinse di lato e schiacciò la testa contro lo spigolo. Poline corse al tavolo marcio, afferrò la stampella, avvolse le dita al primo chiodo, poi al secondo e giù fino all'ultimo gradino. E Nunù le era dietro quando il portone cigolò e la luce del giorno si stese dappertutto.
Pierre entrò. Diede un'occhiata, poi raggiunse la porta della camera chiusa, bussò e la spalancò. Scomparve.
Poline si acquattò alla parete. Sentiva la grana grossa della pietra che le graffiava la pelle. I mormorii là dentro: « Non aver paura. Colette. Hai fame? C'è ancora tanto cibo ». La musica suonò all'improvviso. « Ecco qui, da parte di Sophie. »
La bambina rise, poi iniziò a canticchiare: « Sophie, Sophie! »
« La vedrai presto, ti saluta, tutti alla scuola ti salutano. »
Poi un piccolo silenzio seguito da gemiti e singhiozzi. « Non piangere » fece ancora la voce del gendarme prima di interrompersi per un bacio.
« Sophie non mi viene a trovare? » La voce della bambina era velata dal pianto e la manovella girava nella scatola di latta.
« La incontrerai presto a casa. »
La porta si aprì e si richiuse, mentre la musica ricominciava a suonare.
Poline lo guardò.
« La torre è sorvegliata. Stasera, dopo l'ora del riposo, stasera » le disse Pierre.
« Non verrai! » Il fiato le si incastrò in gola.
La bocca del gendarme restò seria, le gambe piene di fretta portavano via ogni risposta.
Il portone sbatté, l'ombra tornò nella torre.
« Stasera » ripeté il matto.
Ma prima di Pierre vennero gli ufficiali della città. Erano in tre, vestiti di scuro, con i cappelli abbassati che nascondevano il volto. Il capo dei gendarmi e il maiale li guidavano per la piazza e quando arrivarono alla casa del sindaco si fermarono. Fu lì che cinque rossi li raggiunsero, sbucarono dalla via delle botteghe, accompagnati da Pierre e dai blu.
« Marie! » gridò la zoppa.
La bottegaia uscì di casa e il vento le sollevò lo scialle leggero.
« Marie » ripeté Poline e delle lacrime le riempirono gli occhi.
« Viene, Nunù dice che viene » disse il matto e l'abbracciò stretta.
Ma la bottegaia prese la via della scuola e in un soffio sparì.
« Ti prego. Marie. » Poline fece per infilare un braccio dentro il foro, il matto la fermò. Il maiale e il suo seguito marciavano verso la torre.
« A nord ci vorrà più tempo, lì la vegetazione è molto fitta » fece un rosso.
« Ieri è stato battuto il bosco a est » disse un ufficiale. « E domani una spedizione perlustrerà le pendici del monte. »
« Due viandanti giurano di aver visto delle ombre aggirarsi tra gli alberi » disse un altro rosso. « Gli anfratti e le caverne, controlleremo ogni angolo della montagna e ci spingeremo anche a ovest. »
« R. è con voi e pregherà per voi » rispose il sindaco. « Pregherà e avrà fede sino alla fine. »
« Era più di duecento anni che non accadeva qui da noi, Marcel. Ricordo ancora quando mi raccontavano della nipote del curato di Lacroix. Scomparve una notte d'autunno, quando il bosco diventa un tappeto arancione. Cercarono e cercarono, ma non la trovarono. Ma a quel tempo non c'erano i rossi e la valle intera a cercare...» Chi parlò era un altro ufficiale. « Non temere, Marcel. »
« Che Dio ci guidi... »
Se ne andarono per la via delle botteghe. Non restò che Pierre. E il buio sempre più fitto, che annunciava l'ora del riposo molto vicina.
Quando l'orologio d'argento segnò le dieci, Nunù corse alla stanza delle funi e la campana suonò il riposo. E con i rintocchi ancora sospesi il matto restò vicino al portone a guardare la camera chiusa aprirsi, a sbirciare Colette che correva fuori. La salutò con la mano aperta, un sorriso trattenuto.
Da lassù Poline spalancò gli occhi sulla bambina che pareva volare. Sbatteva le mani come a spingersi nell'aria. Costeggiò la piazza in un baleno e tra l'inizio dei ciottoli bianchi e la via delle botteghe superò Pierre che guardava in fondo, verso l'Arco. Quando gli passò accanto lui non si voltò. Solo all'ultimo, un'occhiata prima che Colette finisse tra le braccia della madre.
« Viene, ora viene » disse il matto di nuovo al foro.
Ma Pierre non andò verso la torre, si diresse alla casa bianca.
Poline spinse via il matto e corse alla scaletta di ferro. Si sedette e nascose il viso tra le mani con Nunù che continuava a dire: « Viene! »
« Nunù basta! » strillò lei.
« Vengono, Pierre e Marie vengono davvero » e i suoi occhi erano due fiamme verdi che accecavano.
« Basta, matto, basta. »
Allora lui si precipitò, due scalini alla volta. La sollevò e la portò al foro mentre lei si scuoteva tutta. « Nunù dice il vero alla zoppa. »
Così Poline si incantò su Marie. Precedeva Pierre e gli faceva cenno di muoversi, mentre si avvolgeva nello scialle e si guardava intorno. Era una donnina curva, ma camminava senza incertezze. Ogni tanto si metteva una mano sulla schiena, come a sorreggersi.
« Poline » chiamò la bottegaia. « Poline! » E il portone cigolò.
La zoppa prese il matto per la mano e lo trascinò al piano di sotto.
« Poline!» disse la donna entrando. Si liberò dalla mantella e le gettò le braccia al collo. « Non dovremmo essere qui...»
« Nella torre c'è anche il pirata » disse Nunù indicando la porta della camera chiusa.
« La bambina, loro... » La zoppa non finì la frase.
« Non parlate con Colette, non scendete se non per suonare. »
« Marie, andiamo, possono vederci » disse Pierre e indicò verso la piazza.
« Ascolta, Poline, non scendete voi, non fate salire lei. E solo questione di pochi giorni. Se vi trovano che vi immischiate per voi ci sarà la polvere dolce. »
« Marie! » esclamò Pierre e appoggiò la cassetta sull'ultimo gradino.
« Guardate sul fondo della cassetta... è solo questione di giorni, poi potrò tornare...» Pierre la trascinò fuori, ma la bottegaia fece in tempo a stringere Poline e il matto e il suo profumo di fresco restò con loro.
« Marie » sussurrò la zoppa tremando, mentre la donna usciva. « Non lasciarmi. » Poi abbassò gli occhi, la cassetta le sfiorava il piede curvo.
Poline frugò nella cassetta. Toccò della carta rugosa, dei cartocci che frusciavano contro ogni dito, delle bottiglie.
Il matto le bloccò i polsi, poi prese la cassetta e salì. E la zoppa dietro.
Al tavolo marcio Nunù accese la lampada. Lei cominciò a rovistare e vide che c'erano delle mele e che erano verdi, che i cartocci grigi traboccavano di noci e mandorle, e nelle due bottiglie c'era il latte profumato e l'acqua. E l'olio per la lampada, gli stoppini e i fiammiferi rimanevano tutti schiacciati in un angolo. Le sue dita strinsero e tirarono fuori una sacchetta di fagioli e un pezzo di carne avvolto nella carta. Nell'angolo un fagotto di pezza: lo srotolò con il matto che cercava di tener ferma la cassetta impazzita. Lì dentro c'erano dei tubetti con il blu, il bianco e il nero.
La cassetta era svuotata e lei continuava a guardarla, ma non vedeva che legno sporco e chiodi arrugginiti e storti che la tenevano insieme. Tastò e spinse, batté e batté. Si fermò.
Allora Nunù afferrò la cassetta e la scosse a mezz'aria.
Fu così che lo videro. Un angolo di carta sottile che sbucava tra due fondi uniti assieme.
« La Decisione » disse Nunù. Il matto girò la cassetta e la posò sul tavolo. Poi iniziò ad allargare il fondo che era doppio, unito a un altro fondo di legno sottilissimo. Lei gli stava addosso, provò ad aiutarlo, ma la forza del matto bastò. Nunù tirò e gemette e i due legni si separarono con un rumore secco. La carta finì in terra.
« Il giornale » mormorò Poline mentre lo raccoglieva. Lo stese sul ripiano, lo lisciò.
Nunù portò il lume vicino ai fogli, alzò la fiamma.
« E' il pirata » disse subito.
C'era Colette sul primo foglio, una piccola immagine. Non rideva, guardava altrove. Era seduta, dietro c'era uno sfondo bianco. Aveva un fiocco scuro nei capelli raccolti e il nastro le scendeva fino alle spalle, avvolte nel vestitino pieno di fiori.
Poline tenne la lampada sopra il giornale finché la luce colpì tutta la fotografia. Avvicinò il viso: la bambina stringeva una bambola di pezza nelle mani, al polso portava un braccialetto con dei ciondoli.
« La piccola Colette, amata figlia del sindaco di R., scomparsa mentre gioca al limitare del bosco » lesse Nunù a voce alta. E quella era la scritta in inchiostro grosso all'inizio della pagina. Poi tutto il foglio riempito fino in fondo di righe piccolissime.
Il matto si appiccicò al foglio. « Sono state avvistate ombre sospette aggirarsi di notte nella macchia...'»
Poline si sedette, Nunù si schiarì la voce e lesse ancora: « I gendarmi di Lacroix si uniscono a R., alle forze della città e alla valle intera. Le ricerche della piccola Colette continuano...»
La zoppa tirò il foglio a sé. E subito cominciò a leggere con la voce che faticava a seguire tutte quelle parole, mentre il matto stava ritto sulla sedia ad ascoltare. « ... La gente è nel terrore... La forza dei rossi di Lacroix può... Che tutta la valle vegli sui suoi bambini. »
Lei lasciò cadere il giornale. « Il segno di Dio... La Decisione. »
La zoppa attese che il colore si seccasse e che le divise blu si allontanassero dalla torre. Aspettò per tutto il giorno con gli occhi dentro il foro mentre la musica dalla camera chiusa non smetteva mai di suonare. Poi scese pian piano e il peso sulle braccia la spinse contro il muro. Si raddrizzò e subito le mani diventarono leggere e sgombre.
« La zoppa pesa poco » disse Nunù mentre afferrava la tela e la portava giù al suo posto. Lì si fermò, davanti alla porta della camera chiusa. La luce del tramonto entrava da sotto il portone e dalla finestrella.
Poline aspettò che Nunù appoggiasse il dipinto per terra, poi si fece avanti. Bussò e il colpo coprì la musica per un attimo.
La porta si spalancò.
Colette fissò la tela. « E per me? » domandò.
La zoppa non rispose.
Colette allungò la testa, fece un passo verso il matto.
« E per me? »
Poline avanzò e dietro Nunù, che con un piede richiuse la porta.
La bambina si sedette sul letto e intanto cercava di adocchiare il quadro che il matto agitava tra le mani. « Che cos'è? » disse lasciando la scatola di latta sopra il cuscino.
Poline accese la fiamma, l'alzò più che poté. Così i muri si sporcarono di ombre lunghe e ombre strette, di lampi e buio fitto.
« E' il pirata disegnato » sussurrò il matto mentre sollevava il ritratto alla luce.
La zoppa guardò la bambina avvicinare il viso alla tela. Poi sbirciò la stanza e vide una cassetta con altro cibo, il quaderno aperto sul tavolino e accanto un foglio nuovo.
Nunù fece un passo indietro: « Il pirata non può toccare il pirata disegnato ».
Allora Colette restò immobile a fissarsi. « L'hai disegnato tu? » Si voltò verso Poline.
Annuì.
« Sono io. »
« Il pirata, si » suggerì il matto.
Il dito di Colette cominciò a ricalcare ogni linea, la bocca, gli occhi, il viso, le pieghe del vestito.
« Sono io, sono io » non smetteva di dire. « E' un disegno bello...» aggiunse con la voce rauca e il viso che si abbassava lentamente. Pareva che avrebbe pianto di lì a poco, ma il suo sguardo si rialzò acceso e curioso:
« Sono uguale » disse.
Poline guardò il matto ridere e si sedette sulla sedia in miniatura. Con una mano si stese la gonna, con l'altra frugò nella tasca. Poi con gli occhi andò sul ripiano del tavolino, sul foglio nuovo. Fu allora che tirò fuori il brandello di giornale. Glielo mostrò.
« Ieri sera mamma me l'ha fatto vedere. » Afferrò il foglio e se lo portò accanto al viso: « Però poi si è messa a piangere ». Appoggiò la guancia sul cuscino. « Mi ha detto, scusa amore, scusa, ed era molto triste » mormorò piano. « E quando papà è arrivato a casa ha pianto ancora più forte. »
« Cosa le ha detto tuo padre? »
« Chi ti ha dato il giornale? » domandò la bambina.
« La bottegaia e Pierre il gendarme » disse il matto.
Fece un balzo dal letto. « Non dite a Marie e Pierre che siete miei amici! Papà non vuole che siete miei amici! » Le mani di Colette strinsero la gonna della zoppa e la scossero. « E' un segreto ! »
Poline provò ad afferrarle le spalle minuscole, ma non ci riuscì perché si agitavano. Così l'abbracciò, la calmò.
« E' un segreto... papà non vuole che sono la vostra amica » gemeva piano la bambina e le sue guance erano tutte Rigate di lacrime.
« E' un segreto, si » sussurrò la zoppa.
« Dillo, dillo che è un segreto! » Colette si voltò verso Nunù.
Lui rimase muto e con gli occhi spaventati ripeté che lo era.
La bambina restò con il viso che spingeva sul grembo della zoppa, piangeva.
« E' un segreto » disse ancora la zoppa. Le alzò il viso e le mostrò il dito sulle labbra segnate di sorriso: è il nostro segreto, dicevano.
Così Colette si asciugò gli occhi e le guance. Si tirò su dal suo grembo e in fretta prese il foglio nuovo sul tavolino. « L'ha scritto Sophie, è per me. »
« Cosa ha scritto Sophie? » domandò Poline.
Il matto si avvicinò, si sedette sul letto.
« Sophie dice che ieri ha parlato con i serpenti e gli orsi. » Si voltò verso Poline.
« Anche Sophie parla agli animali... ma lei non è il sindaco, sono io il sindaco degli animali del bosco. »
Nunù d'un tratto si alzò, le andò vicino. Le appiccicò le labbra all'orecchio: « I serpenti hanno il veleno in bocca. Nunù il ha visti quando viveva nel bosco » le sussurrò.
« Nel bosco? »
« Nunù viveva nel bosco e suo papà lo faceva salire sulla schiena e insieme andavano a prendere i funghi e vedevano i serpenti » disse il matto e socchiuse gli occhi. «Il papà di Nunù faceva scappare i serpenti perché Nunù aveva paura... » Le lacrime gli riempirono gli occhi. « E trovava tanti funghi e ogni volta che Nunù ne trovava uno buono lui lo baciava e gli faceva festa. »
« Dov'è tuo papà? »
« Quando Nunù è tornato alla casa vicino al fiume il papà di Nunù aveva la faccia dentro il piatto di minestra...» gemette.
Poline vide il matto prendersi la testa tra le mani e Colette andargli incontro. La bambina lo abbracciò.
« Io ci parlo con i serpenti, con me sono buoni e anche con te sono buoni se glielo dico io. Non devi avere paura anche se tuo papà non c'è. » Lo baciò sulla fronte.
Il matto la fissò. Le guance e il naso erano tutti bagnati. Disse sì. « Il pirata è buono con Nunù. »
« Vuoi che lo dico ai serpenti che devono essere buoni anche con te? »
Lui non aveva mai smesso di annuire.
« Allora questa sera glielo dico. »
Nunù spalancò la bocca e i denti marci spuntarono all'infuori.
« Vuoi che dica anche di te? »
La zoppa sorrise. « Sì... » Aveva l'orologio in mano e lo girava tra le dita.
«... Grazie.»
« Devi suonare la campana? »
Poline lo aprì. « Ancora due ore » e con il dito le mostrò il quadrante. Richiuse il coperchio e in quel momento li sentirono. Rimasero ad ascoltarli, lontani, Nunù in piedi con l'orecchio al muro. Erano vicini alla piazza, battevano i ciottoli con un passo che ogni tanto taceva e subito ricominciava. Come le voci, che le pietre dei muri facevano deboli.
« I rossi! » esclamò il matto.
I rossi tornarono ogni sera. Arrivavano al tramonto e con loro c'erano gli ufficiali della grande città. Insieme al capo dei gendarmi passavano a fare visita al sindaco e a sua moglie, entravano nelle case, poi prendevano la via delle botteghe, con la piazza che li seguiva attenta. E con il calar del buio R. era di nuovo solo.
« Non c'è nessuno » disse la zoppa quel pomeriggio, quando Colette le domandò se i gendarmi rossi fossero là fuori. « Nessuno » e le porse una mano.
Colette guardò il braccio di Poline teso verso di lei. Si alzò dal letto con la scatola di latta stretta alla pancia e le afferrò la punta delle dita. Ma appena si accorse che la zoppa l'avrebbe portata fuori dalla stanza chiusa, si bloccò. « No » fece puntando i piedi.
« Non c'è nessuno » disse Poline mentre le prendeva la mano e la conduceva al primo gradino. Il viso di Colette restò premuto al fianco della zoppa. Lo tenne lì, nascosto, finché non arrivarono alla stanza delle leve. Poi appoggiò la scatola di latta sul tavolo marcio e corse al foro. Si mise in punta di piedi, le braccia che si arrampicavano.
Il matto le andò vicino. D'un tratto l'afferrò sotto le braccia e la sollevò.
« Oh! » disse la bambina mentre volava in alto. « Non ci sono per davvero! » esclamò drizzando il dito dentro il foro.
« Non ci sono » ripeté il matto mentre la metteva giù.
Colette si girò verso la zoppa che nella nicchia tra le pietre soffiava sul fuoco che man mano si alzava. Il fumo scuro e spesso si infilava dentro tre buchi grandi e profondissimi che scavavano dentro la parete e lo facevano uscire fuori dalla torre. Un po' rimaneva lo stesso nella stanza, come una nuvola sottile tra di loro.
« Arrivano solo al tramonto e vanno via subito » disse Poline, le guance paonazze per lo sforzo.
Allora Colette cominciò a tirare la camicia larga del matto. Gli disse di portarla ancora lassù e lui lo fece.
«C'è Pierre! »
La zoppa si voltò.
« Alla fontana! » precisò il matto.
Poline tornò a soffiare sul fuoco.
« Papà e Didier! Papà! »
Si girò di nuovo e con il calore che le bruciava la pelle fece un passo verso il foro.
« Sono lontani! » l'avvertì il matto.
Si bloccò. Tornò al ripiano e prese la parte di carne rimasta nella ghiacciaia. La tagliò in tre pezzetti, il sangue colò sul legno che si impregnò di gocce scure, così l'odore di fumo diventò profumato di selvatico.
« I maestri! » diceva la bambina.
Mentre la carne cominciava a sfrigolare sui ferri incandescenti, Poline apparecchiò il tavolo marcio. Tirò fuori la tovaglia dal cassetto del tavolo, la distese. I buchi del ripiano scomparvero sotto il giallo del cotone e il bianco dei tovaglioli. Subito dopo portò i bicchieri di vetro opaco e i coltelli di sua madre relegati nel fondo del cassetto.
Prese le carote e la verza dal secchio e cominciò a tagliare con il più lungo dei coltelli. Fece tante strisce sottili e le sistemò nella ciotola al centro del tavolo assieme a spicchi di mele. Alla fine qualche bacca di ginepro e poche gocce di aceto.
« Cos'è? » Colette teneva Nunù per mano.
« Sedetevi » fece la zoppa togliendo la carne dal fuoco, il grasso scoppiettò sulla poca brace. I pezzetti finirono nei tre piatti e subito la forchetta del matto provò a infilzare il suo.
« Aspettate» disse Poline e andò al mobile dietro il tavolo. Tornò con un piccolo vaso scuro. Ci immerse un cucchiaio di legno che si riempì di una poltiglia violacea. Andò da Colette, andò da Nunù. E ognuno dei pezzi di carne fu condito con quella polpa mielosa. Affettò anche del pane nero, che lasciò sui ferri incandescenti per qualche istante. Lo girò e rigirò e quando fu croccante lo mise in tavola.
« Pronto! » esclamò.
Il matto annuì.
« Cos'è la crema viola? » domandò la bambina.
Poline si sedette, ma prima sistemò una ciotola coperta al suo fianco. Si toccò la rosa al collo. « Buon appetito » disse.
Il matto aveva già la bocca piena, non rispose. E Colette cominciò a grattar via il viola dal pezzo di carne, raschiandolo con cura in ogni angolo.
« Ti prego, mangia » disse sorridendo la zoppa. Le prese la forchetta e la inzuppò nel viola. La mano tremava mentre avanzava verso quelle labbra che non volevano aprirsi. « Ti prego. » Il pezzetto veniva avanti. Allora la piccola bocca si schiuse pian piano e masticò e masticò.
Colette sorrise.
« Polpa d'uva nera e alloro » disse Poline tornando al suo piatto.
Ogni tanto là fuori si alzavano le voci. E quando succedeva, il matto correva al foro. « Sono lontani » diceva. Poi si sedeva di nuovo e aspettava che Colette e la zoppa finissero di mangiare. Abbassava la testa sul suo piatto, pulito e lucido. C'erano rimasti un filo di carota e una bacca di ginepro. Li ripulì in un attimo e passò l'indice al centro della scodella dove un rivolo di succo colava: appoggiò la punta del dito sulla lingua, succhiò. E subito dopo si incantò sulla ciotola coperta dall'altra parte del tavolo: c'era sopra una pezza di cotone appoggiata che non faceva vedere niente.
« Non ho più fame. » Poline gli allungò il piatto e il matto ripulì anche quello.
Colette mangiava senza parlare, teneva il viso alla parete senza pietre. Tornava a loro un istante e di nuovo era lì, ai dipinti. Assaggiava qualche filo di verdura e rimaneva immobile, lo sguardo acceso. «E' tuo papà... » disse e indicò la tela più vicina, quella con l'orologiaio che un po' sorrideva.
« No, non è lui mio... »
« Chi è allora? »
« Il maestro delle campane » fece il matto.
« Il vecchio orologiaio » disse la zoppa.
« Abitava qui prima di te? »
« Sì. »
« Il biglietto nel comò allora è per lui! »
Poline annuì.
« Tu sai chi gliel'ha scritto? »
Poline bevve un sorso di vino rosso: « La sua sposa ».
« La moglie del maestro delle campane ha scritto il biglietto nascosto nel comò. » Il matto si alzò e indicò la tela dell'addio.
« E chi l'ha nascosto lì? »
« Non lo so » fece la zoppa.
La bambina raggiunse Nunù alla parete dei quadri. « E dove è andata la sua sposa allora? »
« Nella grande città. »
« Allora vuol dire che non gli voleva più bene. »
La mano della bambina accarezzò l'addio. Passava le dita senza toccarli, il collo, il viso, il bosco intorno. E poi i capelli, il vestito, i tetti d'ocra e la torre stretta e lunga.
« E lui chi è? »
« Lui... »
« E tuo papà? » la interruppe Colette. Era accovacciata, teneva il viso vicino al quadro. « Si è addormentato... » disse, «... com'è magro.»
« Il sindaco Jerome » esclamò Nunù mentre andava al foro.
« Si è addormentato » sussurrò ancora la bambina.
« Sì » disse la zoppa. Poi si alzò e con la ciotola coperta la raggiunse.
La bambina guardò e riguardò tutte le tele. Vide R. dall'alto, Nunù il matto senza barba e nel dipinto della piazza una donna bionda vicino alla casa rossa. « Questa è la mia mamma! E la tua dov'è? »
Poline le avvicinò la ciotola e la scoprì disegnando un cerchio con la mano.
« Per Nunù! » fece lui e corse lì.
« Dov'è la tua mamma? »
Il matto prese uno, poi due, tre di quei biscotti e andò sul letto.
« Sopra c'è lo zucchero fine, ti piace lo zucchero fine Colette? »
La bambina la fissò ancora. Poi guardò il bianco dello zucchero che spolverava la ciotola come il primo velo di neve sui prati. Prese un biscotto e l'amaro del cacao le finì in bocca mentre continuava a cercare sulla parete senza pietre. « Sono gli occhi della tua mamma quelli? »
Poline scosse la testa.
« Di chi sono allora? »
« Gli uomini guardano» mormorò Nunù, un libro che gli copriva tutto il viso.
« Di mio padre, sono i suoi. »
Colette fece un passo indietro e si soffermò ancora su ogni tela. « Non c'è la tua mamma » disse piano. « Perché non la disegni? »
Poline si avviò nell'angolo dove teneva le tele ancora da dipingere. Là in mezzo ne prese una più piccola e già colorata.
« E lei? »
La zoppa disse si.
«Com'è bella... »
Poline l'aveva dipinta con i capelli legati e la pelle arrossata. Sedeva all'arcolaio, a fianco del tavolo di legno nero, rideva e quel sorriso le stringeva gli occhi scurissimi. Aveva uno scialle verde sulle spalle e premeva una mano contro la guancia come per trattenere la risata.
« Se ride vuol dire che è felice...» disse Colette e le portò via il dipinto. « La tua mamma la metto qui, accanto a te. » Sistemò la tela ai piedi della parete, con un bordo appoggiato alla parete senza pietre. Poi si voltò alle funi che bucavano il soffitto e alle leve nel muro. Corse là e ne toccò una e si guardò il palmo sporco di ruggine. Lo pulì con l'altra mano, due colpi, e si mise a spiare quelle leve di ferro da ogni punto.
« Muovono il tempo » disse la zoppa accovacciandosi davanti alla tela di sua madre. Restò a fissare il viso sorridente di tempera secca che la rendeva davvero felice e bella. Fece per accarezzarla, ma poi si fermò e bruscamente si alzò.
« Lo muovono? » domandò la bambina.
La zoppa la raggiunse. « Spostano le lancette del grande orologio avanti e indietro.»
Colette osservò una leva. All'improvviso si aggrappò con tutto il peso, provò a sollevare le gambe, a dondolarsi.
« Il pirata non deve fare il trucco! » disse il matto e la bambina si arrestò.
Poline tenne il viso un po'"all'orologio d'argento, un po'"alle lancette che non si erano spostate.
« Cos'è il trucco? » domandò la bambina.
La zoppa indicò in cima alla torre: « Ingannare gli uomini con un tempo sbagliato».
« Si arrabbiano» mormorò Nunù. « Gli uomini si arrabbiano. » Appoggiò la copertina del libro al petto.
« L'orologio si muove da solo, non sta a noi decidere delle ore e dei giorni » disse la zoppa.
« Tu lo puoi muovere, l'orologio è tuo » mormorò la bambina.
« L'orologio non è di nessuno. » Colette restò zitta. Poi appoggiò di nuovo una mano sulla leva. «Muovila, muovila! »
La zoppa le si accovacciò davanti. « Vorresti che fosse già stasera per tornare a casa? »
Colette annuì e provò a spingere ancora il ferro. « Due o tre giorni » disse.
« Come? »
« Due o tre giorni avanti. »
« Non si può, gli uomini si arrabbiano se il pirata fa il trucco » fece il matto.
« Tre giorni solo. » Colette provò a scuotere la leva, spinse e tirò con tutte le forze. Nunù si coprì gli occhi.
«Due o tre... giorni... perché? » chiese la zoppa. « E' un segreto, è un segreto. » La bambina fece per guardare dal foro.
Il matto balzò in piedi e spiò la piazza: « Lontani! » disse con gli occhi di paura.
« Non c'è nessuno, non ti preoccupare. Colette. »
« E' un segreto. » Si mise le manine sugli occhi.
Poline le andò accanto e la bambina si nascose dietro alla pila dei libri. « Colette...»
« E' un segreto che non si deve dire » cominciò a gemere.
Il matto scomparve sotto il lenzuolo. La zoppa si chinò su di lei. « Si, è un segreto » le sussurrò e la mano si posò sui capelli biondi.
« Due o tre giorni solo, dice il segreto. »
« Si, Colette » rispose la zoppa e il viso della bambina si gettò sul suo petto e lì rimase, premuto.
« Vieni » le disse Poline. « Vieni. » E la condusse sulla scaletta di ferro. L'abbracciò, provò a prenderla in braccio ma non ci riuscì. Così cercò di stringerla più che poté finché insieme raggiunsero il tetto.
Il giorno la avvolse. « Questa è la mia banda » fece la zoppa.
Colette cercò di fermare il sole con un braccio. « La mia banda, Colette » e la indicò. Opaca e immobile, metà di luce, metà d'ombra.
La bambina si asciugò il viso, poi camminò sola. Si avvicinò alle sbarre che proteggevano la campana. Ne sfiorò una, la toccò. Ci si aggrappò, i piedi faticavano a muoversi sui coppi. Allungò una mano, la fece passare in mezzo a due sbarre e la fermò perché afferrava solo il vuoto. Allora salì sulla doppia pila di mattoni che l'orologiaio aveva sistemato per arrivare ad accarezzare la punta. « E' grande la tua banda, è grande come quella di mio papà e anche di più » disse con la voce debole e la bocca che cominciava a sorridere. E stese il braccio fino a sentire il freddo del metallo. « Però non ci sono gli uomini che la suonano. »
« C'è Nunù. »
Colette tornò a terra e iniziò a girarci intorno, si aggrappava a una sbarra e all'altra e appena potevano le sue dita scivolavano dentro per toccare la campana.
« Suona, suona » diceva.
« Solo Nunù con le corde la può suonare. » La zoppa l'aiutò a stare in equilibrio.
Colette la guardò, poi indicò il bosco là in fondo. Si avvicinò al muretto.
« Attenta. » Poline la prese per mano e l'accompagnò a ridosso del vuoto. Lì si accovacciarono.
« Da qui gli animali non si vedono, ma ci sono » disse Colette, e con il dito li disegnava in mezzo agli alberi. « Loro mi ascoltano anche se sono lontana. »
Poline annuì.
« Ho detto che sei amica mia, loro lo sanno che sei amica mia. »
« Colette...»
La bambina sollevò lo sguardo.
« Parlami del bosco... »
Strattonò la zoppa nella gonna per farla chinare. Poi le andò all'orecchio: « Ci sono i rumori nel bosco, piccoli piccoli e certe volte fortissimi perché gli animali parlano ». Le si sedette accanto. « Anche gli alberi parlano... » Le prese un braccio. «Tu lo sapevi? »
Poline disse no.
« Quando muovono le foglie si dicono le cose e le dicono a tutto il bosco. Dicono anche se un bambino si è perso e allora loro gli fanno ritrovare la strada. »
« In che modo? »
« Dicono al fiume di fare molto rumore così i bambini smarriti lo trovano e lo seguono fino alla grande città. Però bisogna stare molto attenti perché si può scivolare. » Le indicò la montagna oltre l'Arco. « Il bosco è tutto in salita e se non sei bravo cadi sempre... » All'improvviso sollevò la gonna della zoppa fino al ginocchio, le guardò le gambe.
La zoppa sussultò, si irrigidì.
« Se vuoi andarci nel bosco, ci penso io a chiamare gli animali. Ti guideranno, così non inciampi e la gamba non si fa male. » Le posò una mano sul piede curvo.
« Colette... »
La bambina le appoggiò la testa a un fianco, lo sguardo rimaneva su due coppi pieni di muschio ingiallito. Poi si liberò dalle braccia di lei e la fissò: « Tra due o tre giorni i blu mi portano nel bosco accanto a Lacroix, dove abitano i rossi... mi portano nel bosco tra due o tre giorni...» Fece un sospiro. « I blu mi sporcano di terra sulla faccia e sulle mani e mi portano a casa e dopo è tutto finito » disse in un fiato.
Poline teneva gli occhi sullo stesso muschio. Aveva dei piccoli germogli, dei fiori minuscoli che spuntavano e parevano piantati dentro il mattone scrostato. « Nel bosco... » mormorò piano.
« Il mio segreto io l'ho detto solo agli animali così mi aiutano. » La bambina mise il viso tra le ginocchia, le mani attorno alle gambe. « E' un segreto... » piagnucolò con la bocca premuta al vestito.
La zoppa la strinse ancora a sé. Poi la sollevò, la portò fino alla porticina di ferro.
Colette si voltò, ancora una volta, verso la grande banda. « E' bella » disse. « E' la banda più bella che ho mai visto » ripeté mentre rientrava.
Poline rimase un istante là fuori, il sole che bruciava gli occhi. « Due o tre giorni. »
« Suona adesso! » esclamò la bambina.
Allora la bocca del mattò si allargò: « Che li acciuffi e li conduca... » farfugliò. Poi saltò con le scarpe nei nodi delle funi, le braccia si avvolsero alle corde e cominciò a tirare, a tirare, e intanto rideva e gridava. «Din Don! » « La campana non suona » disse Colette. E quello fu l'attimo del primo rintocco. Il secondo fu un colpo più forte, il terzo fortissimo e le mani della bambina lasciarono cadere la scatola di latta e si schiacciarono alle orecchie.
Nunù volava al soffitto e quasi lo toccava, poi tornava giù. Ora solo un piede era nella fune, l'altro era un coltello affilato che tagliava l'aria in mille pezzi.
Così la campana batté l'ora del lavoro. E prima ancora che i colpi finissero, Poline puntò la stampella contro le pietre e trascinò Colette fuori dalla stanza delle funi. La piccola la seguì per le scale e quando arrivò al tavolo marcio si fermò a prendere fiato.
« Guarda » disse la zoppa affacciata al foro e la fece salire su un secchio rivolto all'ingiù. « Guarda. »
La piazza era vuota e zitta ma il suono della campana vibrava ancora, intriso nella memoria dell'aria che teneva stretti quei rintocchi senza fine. Non avevano mai smesso di battere e adesso li ascoltavano i monti, il bosco, andavano oltre le cime, in marcia verso la grande città. I muri, le pietre di R., ogni cosa ne era impregnata. Come le case, che si aprirono d'un tratto.
« Ecco » sussurrò la zoppa.
« C'è papà... e anche Sophie...» Colette li indicava. «. Didier e il capo dei gendarmi.»
Presto la piazza si colorò delle mantelle porpora delle bambine, del blu dei gendarmi, del verde e del nero dei vestiti delle donne. Le voci erano un manto leggero di bisbigli e di qualche brusio che si alzava acuto.
« Marie... » disse Colette.
La bottegaia usciva dalla casa bianca, i piedi veloci la portarono ai margini della piazza e poi alla via delle botteghe. Teneva lo sguardo basso, le due mani alla mantella alta fino al mento. Ma ogni tanto il viso si alzava piano, per salutare.
« Marie » disse la zoppa.
« Lei è la tua amica vera? »
Annuì.
« Non viene mai a trovarti? »
« Sì, ogni tanto. »
« Mamma! » esclamò all'improvviso la bambina mentre cercava di spingere la testa ancora più dentro le pietre.
Poline si voltò verso la casa rossa. La donna bionda restava davanti alla porta, teneva le braccia al ventre e il suo sguardo andava al portone della torre.
« Mamma... » disse Colette.
Poline le posò una mano sulla testa.
« Mamma mi ha scritto le regole ieri sera. » La bambina girò i piedi sul secchio e guardò la zoppa.
« Le regole? »
« Le regole di quando tornerò dal bosco. »
« Che regole ti ha scritto? » Poline non si accorse, ma la strinse forte sulla piccola spalla, dove appoggiava la mano.
« Le vuoi vedere? » domandò Colette mentre si divincolava da quella stretta.
La zoppa lasciò la presa. Poi disse di sì e il suo braccio si nascose dietro la schiena.
« E' un segreto » fece la bambina mentre scendeva dal secchio. Andò alla scala di pietra, fece tutti gli scalini in un baleno e con tre balzi entrò nella camera chiusa.
Poline le si precipitò dietro e con un cenno ordinò a Nunù di non muoversi dal tavolo marcio.
« La porta » disse Colette dal letto.
La zoppa appoggiò la stampella al comò ma quella scivolò a terra. Non la riprese, saltellò alla porta e la spinse finché l'ultimo filo di luce restò fuori. Rimase solo la finestrella a indicarle la lampada sopra il tavolino. E quando la fiamma si alzò, vide il quaderno rosso in mano alla bambina.
« Le ha scritte qui e qui » disse Colette mostrandole due pagine a metà del quaderno.
Da fuori entravano le voci. Poline raggiunse il letto solo quando si furono allontanate.
« Tre sono le regole. » Colette avvicinò il quaderno.
C'erano dei disegni. Due in una pagina e uno in un'altra. I colori dei pastelli erano stesi con un tratto liscio, perfetto. Prima una bocca chiusa. Sottile e viola, il labbro alto a punta, un piccolo becco all'insù come quello di Colette.
« Silenzio » disse la bambina mentre la indicava e continuò. « Silenzio dice la prima regola... quando tornerò dal bosco io non dovrò parlare con nessuno » e fece vedere la bocca stretta stretta come quella del disegno.
Gli occhi della zoppa scesero sul rosso del secondo disegno. Quello era il muro rovinato della casa del sindaco, lo era davvero. La parete aveva le stesse grosse crepe e il vetro azzurro della finestra lasciava intravedere la vecchia credenza che un tempo le era appartenuta. Riconobbe le tazze bianche che spiccavano dietro le ante.
« La seconda regola dice che per un pochino io devo rimanere nella mia casa. »
La zoppa allungò una mano al quaderno. Strisciò due dita sul bianco della carta e si fermò prima di toccare i colori della casa del sindaco. Poi fu come entrare là, nella stanza della finestra. Rivide la poltrona verde di Nunù, la fotografia di suo nonno alla grande festa proprio sopra la cassapanca. E il tavolo dei gomitoli cosparso di matite colorate, il maestro delle campane che leggeva i suoi libri. Rivide la camera dei suoi genitori e seduta sul letto sbirciò sua madre, in vestaglia da notte che spazzolava i capelli lunghi su una spalla. La sua pelle era bellissima, liscia, e gli occhi socchiusi parevano accompagnare la mano a ogni colpo di pettine.
Il terzo disegno era la torre. Occupava metà del foglio. Era alta, altissima, con le pietre che si potevano contare una a una. Il grande orologio aveva due lancette aguzze pronte a scattare. In cima a tutto, lassù, la gabbia opaca che intrappolava la campana gialla e piena di luce.
« Io non ci sono mai entrata nella torre, dice la regola » canticchiò la bambina.
Ma la zoppa non l'ascoltava. Il suo sguardo scese piano sul foglio, si fermò sotto il grande orologio. Così lo vide, un rettangolo colorato di nero. Era il foro. A guardarci bene, lì dietro non c'era solo l'ombra scurissima, c'era qualcuno: il matto, che spingeva la testa più che poteva. Accanto a Nunù, lei. Il viso bianco, gli occhi accesi che brillavano nell'ombra.
« Io non ci sono mai entrata nella torre, così dice la terza regola. »
La zoppa annuì.
« Le regole sono un segreto. »
Poline non riusciva a staccarsi dal quaderno. Lo prese, cominciò a sfogliarlo, lentamente. Cercava le regole, le trovò nell'attimo in cui la banda di Colette iniziò a suonare. Andò con la punta dell'indice su quei colori che erano lisci e parevano d'olio. Lisci, senza striature. E le ombre erano quelle giuste, appena marcate. « Tua madre disegna sempre? »
« Quando io sono alla scuola. »
« Cosa disegna? »
Ci pensò su. « Papà... » Si fermò un istante per girare a manovella. «... Io e Sophie... E gli animali del bosco. » Lo sussurrò con un dito tra le labbra.
La zoppa dondolava la lampada con una mano e con l'altra avvicinava i fogli alla luce.
« Didier...»
I disegni avevano contorni appena accennati, ma dentro il colore era steso con maestria. E i dettagli, i dettagli erano solo abbozzati, ma pareva di toccarli per davvero.
«... Arriva. »
Colette cominciò a scuotere la spalla della zoppa, il quaderno finì a terra.
« E' Didier! » La scatola di latta cadde e anche la zoppa, spinta da quelle braccia insistenti. « Vai via! Sta arrivando Didier! »
Cadde anche la lampada e non videro più niente. Poline arrancò nella stanza, le mani avanti che tastavano l'aria e il muro di pietra. Le dita grattavano, graffiavano, e la granella della parete le si appiccicava addosso.
« Esci! » urlava la bambina, la spingeva ovunque e la sua voce era rotta dai gemiti.
La zoppa si fermò. Si girò intorno e trovò lo spiraglio di luce che entrava da sotto la porta. Corse, poi si fermò ad ascoltare le voci che erano fuori. L'ometto stava per entrare nella torre.
Uscì dalla camera, salì il primo gradino, e il secondo, e il terzo, finché sentì il cigolio del portone. Le sue dita strinsero i chiodi arrugginiti mentre la schiena si piegava a destra, sempre più, come dovesse spezzarsi. Alzò lo sguardo e fissò il braccio teso che cercava di raggiungerla. Il matto aveva gli occhi spalancati e la sua mano si apriva e si chiudeva, la chiamava.
Nunù le afferrò il polso a metà dei gradini, la sollevò. La portò alla fine della scala e si buttò con lei oltre la parete senza pietre. Rotolarono, intanto che l'ometto sgridava la bambina per via della porta aperta.
« E' molto nero quando è chiusa » rispose Colette.
Poline restò a terra con il matto che riprendeva fiato. Gli sorrise, poi si alzò e si precipitò al foro. Non c'era nessun altro vicino alla torre, solo i due gendarmi fermi alla fontana.
« E' rimasta... » Si schiacciò i palmi alle guance e più in su, alla fronte che si bagnò di sudore. Si voltò ai muri della stanza delle leve, fece due passi verso il tavolo marcio.
Il matto sussultò su una delle sedie, la fissava e già aveva le dita che si aggrappavano alla barba.
« La stampella» sussurrò lei, gli occhi sgranati. « E' rimasta giù. »
Poline li vide andarsene. Didier e due divise blu che portavano via la cassetta di legno e il tavolino. L'ometto parlottava con un gendarme e gesticolava senza pace. Era una macchia scura e veloce che scomparve nella via delle botteghe.
Nunù le fece cenno di scendere ma lei rimase al foro, come non lo vedesse.
« Non ci sono più » mormorò il matto.
La zoppa si sollevò la gonna e corse per la stanza delle leve, corse per i gradini fino al piano di sotto, il fiato del matto dietro le orecchie. Si fermò per un sospiro, proprio davanti alla porta della camera chiusa, e sentì il petto scoppiare. Entrò e la vide. Colette era seduta sul letto, incantata alla finestrella. La bambina non si mosse neanche quando si accorse di loro.
« Colette » disse la zoppa mentre si avvicinava piano. E intanto cercò la stampella ai piedi del comò, non la trovò e guardò meglio. Eccola, era ritta in piedi e poggiava contro un lato della cassettiera. La luce mostrava le bende mal arrotolate attorno all'impugnatura.
Poline distolse lo sguardo, si sedette accanto alla bambina che nelle manine stringeva il quaderno bianco piegato in un mezzo cerchio. « Colette » disse ancora.
« Non si è arrabbiato » farfugliò e si voltò verso la zoppa.
« Cosa ti ha detto? »
« Mi ha chiesto se eri la mia amica. » Alzò il viso al matto seduto sulla piccola sedia. «Lo hanno portato via» e indicò lo spazio vuoto che prima era stato del tavolino. Al suo posto là in basso una cassetta piena a metà di cartocci.
« Cosa gli hai detto, Colette? »
« Che sei la mia amica solo un pochino perché avevo paura che si arrabbiava. » Sbadigliò. « Però Didier non si è arrabbiato, ha detto solo che... » Si bloccò.
« Cosa ha detto? »
« Didier ha detto che sei zoppa... e che il tuo sposo è matto. Didier ha detto anche che papà non vuole che venite qui. »
« Sì » disse la zoppa.
« Non vuole, papà, non vuole. » La bambina si dondolava avanti e indietro. « Tra due giorni mi prendono e mi portano nel bosco e poi a casa, ha detto Didier...» Non smise di cullarsi, fissava avanti e la testa scivolò contro la spalla della zoppa.
« Tra due giorni Colette, sì. »
Anche il matto lo ripeté e mentre lo diceva annuiva e il suo braccio si allungava tremante alla bambina. Le accarezzò la fronte e le guance.
Colette scese dal letto, lasciò la scatola di latta alla zoppa e andò al mobile. «Era caduta...» Afferrò la stampella «... Didier l'ha raccolta... » e con quella ritornò da loro.
« Grazie » disse la zoppa.
« Andate via » fece Colette in un fiato. Lo disse con un sorriso timido mentre le prendeva la mano.
E la zoppa la strinse forte. Poi si staccò. « Sì, andiamo via » disse con il matto già in piedi, la gamba debole alta e la stampella contro l'ascella.
« E' un regalo per voi » disse Colette aprendo il quaderno.
Loro si voltarono. In mano la bambina aveva due foglietti piegati. Andò vicino al matto e a lui diede il più grande. « Così non hai più paura di me. »
Lui lo prese, lo spiegò. « E' il pirata... » disse mostrando il disegno alla zoppa.
C'era Colette disegnata su quella carta. I capelli gialli e lunghissimi, il corpo che era un quadrato verde con braccia e gambe tutte storte. Il viso tondo e appuntito sul mento, gli occhi blu che ridevano.
Il matto si inginocchiò davanti alla bambina. « E' Colette» disse facendo svolazzare il foglio tra due dita. « Non è il pirata » ridacchiò.
« Bravo Nunù! » La bambina annuì e gli scompigliò i capelli. Poi si rivolse alla zoppa. « Ti piace il tuo disegno? »
Poline smise di guardare quello di Nunù e aprì il suo. Il foglio era occupato da cinque di quelle figure basse e marroni, le stesse del pezzo di carta che si erano passate sotto la porta della camera chiusa. Gli animali del bosco.
« Ci sono due orsi... anche lo scoiattolo... » La bambina fece un passo avanti. « Un serpente e un riccio. »
La zoppa si girò verso la scala di pietra e fece per andarsene. Ma si fermò, con gli occhi che cercavano di rimanere asciutti e aperti.
« Ti conoscono adesso» disse la bambina. Provò a prenderle una mano, ma la zoppa si ritrasse.
« Gli animali del bosco ti conoscono adesso» fece ancora.
Poline uscì senza voltarsi.
« Loro ti salvano. »
Si fece forza sulla stampella e cominciò a salire. « Grazie » sussurrò e non si voltò, ogni gradino una lacrima.
La zoppa li vide arrivare poco dopo che Colette se ne era andata dalla torre all'ora del riposo. Venivano dalla via delle botteghe: il sindaco e l'ometto.
« Arrivano » mormorò con la voce che si sentiva appena.
Nunù scattò in piedi e le andò accanto, spinse la testa al foro. Poi cominciò a tremare. Li osservava e pregava che prendessero la via delle botteghe. « Il tetto! » strillò in un verso secco.
Ma lei non si mosse. Restò con gli occhi a loro, non li lasciò mai.
Nunù la scosse, provò a caricarla sulle spalle. Lei si divincolò.
« Non verrò, Nunù. »
Allora il matto le si avvicinò di nuovo, cercò di afferrarle un braccio ma Poline si scostò. « Vai tu. »
Lui cominciò a camminare per la stanza delle leve. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni e la schiena curva in avanti.
Il portone della torre cigolò.
Il matto ebbe un sussulto, si precipitò alla pila di libri e ne prese uno, lo offrì a Poline. « Il bambino spazzacamino è della zoppa se la zoppa viene sul tetto » disse e si appiccicò al fianco di lei.
Non gli rispose.
Lui prese un altro libro: « Anche il pirata che suona il violino ai pesci è della zoppa».
Ma lei disse: « Vai ».
« Tutti i libri di Nunù sono della zoppa se viene sul tetto! »
« Non verrò, »
Nunù spalancò gli occhi. « No! » Rimise a posto i libri e per un istante non fece niente. Poi saltò sugli scalini di ferro e arrivò alla porticina. La aprì e guardò ancora una volta la zoppa curva al foro nella luce flebile. Strinse il corrimano e la ruggine gli punzecchiò la pelle, lo strinse fortissimo e il ferro gli morse le dita. Scomparve. La porticina di ferro sbatté e nella torre rimase lei assieme a chi era appena entrato e stava salendo.
« Così tu non dormi mai » bofonchiò il maiale.
Poline non si voltò.
« E vero o no che non dormi mai? »
Il piede curvo provò a salire ancora di più. La stampella premeva contro l'ascella, l'aiutò a girarsi.
« Tutto il giorno a guardare. » Il sindaco allargò le braccia.
La zoppa alzò il viso ancora un po'"e i capelli disordinati le coprirono la vista di quei due corpi così diversi. « Non ti stanchi a star sempre a guardare, a guardare, a guardare... »
Lei si liberò gli occhi.
« A guardare, a guardare » fece eco l'ometto. Poline mise la stampella tra lei e loro. « No » rispose. « Che altro farebbe sennò? » commentò Didier. « Dipinge. La nostra zoppa è una pittrice, una grande pittrice, non lo sapevi? Immortala gli sguardi degli uomini e il sublime del mondo. Ferma il tempo sui suoi quadri, gli amori e le speranze, il dolore e la gioia. Con i suoi ritratti rende eterno ciò che morirebbe, non è un vero miracolo? » il maiale continuò. « Vieni, vieni a vedere questo atto divino, vieni Didier. »
Presero la lampada sul tavolo marcio e si fermarono alla parete senza pietre.
« Vedi come è brava, Didier? E una pittrice... Che a Lacroix non hanno di certo... Ci siamo tutti sulle sue tele! » tuonò il sindaco.
« E questa chi è? » Il dito corto dell'ometto indicava la tela dell'addio.
« Una donna » rispose Poline.
« E questi occhi... Questi occhi di chi sono? »
Non le servì veder bene. Capì. « Di mio padre » rispose. Poi guardò un istante un'altra tela girata contro il muro, che poggiava a terra.
Loro le vennero incontro.
« Aveva gli occhi così tristi il grande sindaco Jerome? » domandò Didier che si bloccò a due passi da lei.
« Erano occhi ingrati, i suoi » disse il maiale e il respiro gli gorgogliò in gola. Tossì e appoggiò il bastone al tavolo. Poi si sedette sulla prima sedia e l'ometto fece lo stesso. « Accomodati » la invitò voltandosi verso di lei.
Poline fissò quelle labbra umide, come sempre luccicavano.
« Accomodati. »
La zoppa ubbidì. Fece il giro del tavolo marcio e scelse la sedia accanto al catino ormai asciutto.
« Dov'è? » fece il sindaco guardandosi attorno. « Dov'è il matto? »
Lei indicò la porticina di ferro.
« Cosa fa là? » L'ometto scattò in piedi.
« Sta male. »
« Sta male? » domandò il maiale picchiettando il bastone contro una gamba del tavolo.
Lei annuì.
« Lo andremo a chiamare tra poco... Hai qualcosa da offrirci... Poline Ti chiami così, no? »
« Poline la pittrice di R. » fece Didier.
« Certo... Poline la grande pittrice di R., figlia di Jerome il grande sindaco di R., giusto? »
Lei si alzò e andò alla madia. Prese la bottiglia mezza piena di acquavite. E tra i bicchieri scelse gli unici due vecchi e sporchi lasciati dall'orologiaio.
« Poline, pittrice di R. Suona proprio bene. »
Li mise sul ripiano, li riempì a metà.
« Suona proprio bene!» L'ometto parlò ancora. « Molto meglio che la zoppa di R. !» Ridacchiò e trangugiò l'acquavite in un sorso.
Il sindaco fissava il bicchiere. Lo sollevò in aria e ci avvicinò la lampada. C'erano come tanti puntini neri lì appiccicati, e piccole croste giallognole. « Moscerini... » disse.
« Puah!» L'ometto sputò. « Puah! Puah! » Prese il suo bicchiere e controllò il vetro centimetro per centimetro. All'improvviso lo lanciò contro il muro, esplose in pezzi che schizzarono ovunque. « Lerci! Ecco cosa siete! Puah! »
« Caro Didier, gli occhi servono anche a questo! Sei troppo ingordo, troppo ingordo! » Il sindaco sorrise.
« Lerci!» L'ometto aveva il fuoco nelle pupille, la saliva gli colava sul mento, si asciugò con un fazzoletto. Non smetteva di sputare e di camminare per tutta la stanza delle leve.
« Altro che pittrice... sei una zoppa! Una zoppa che ci ha portato disgrazie da quando è venuta al mondo! Puah! Se quella volta con te avessero fatto il loro dovere... »
« Didier! » gridò il sindaco.
L'ometto si passò il fazzoletto sulla faccia e tornò a sedere, la sua bocca non smetteva di contorcersi. Fissò Poline, poi abbassò lo sguardo mentre l'unghia del pollice raschiava lo spigolo del ripiano.
« Diciamo che un certo giorno...» Il maiale prese a grugnire.
La zoppa portò le mani una dentro l'altra. La luce della lampada si rifletteva sul suo viso di spigoli e ossa.
«... Un certo giorno R. vi ha chiesto... Te lo ricordi, zoppa? »
« Lei è la pittrice, la grande pittrice di R. » mormorava l'ometto tra i denti.
Il sindaco gli lanciò un'occhiata e continuò: « Vi ha chiesto di non ascoltare e di non vedere quello che succedeva qui dentro... e sapete perché ve l'ha chiesto? » Avvicinò la faccia al centro del tavolo, la voce diventò calma. «... Lo sai perché zoppa?»
Aspettò, e disse di no.
« Ve l'ha chiesto perché anche voi fate parte della strada che Dio ci ha indicato... La strada che restituirà a R. il lustro che merita... » Il sindaco appoggiò la schiena alla sedia. Afferrò il suo bastone e con un colpo frustò l'aria sotto il tavolo marcio.
« Non ascoltare, non vedere... Solo questo. »
Lei sentì la gonna muoversi. E un piccolo schianto. Si voltò: la stampella si ribaltò, cadde un po' alla volta, lentamente.
« La stampella... è la tua gamba. La gamba sana che non hai. Mai trascurarla. Mai dimenticarla. Lasceresti una gamba per terra, al buio, dove qualcuno potrebbe rompertela? L'abbandoneresti? »
Didier sorrise a metà, gli occhi vispi. « La dimenticheresti la tua gamba sana, Poline? »
« Non ascoltare, non vedere. E invece... »
Ci fu un tonfo. Si girarono. Il matto era entrato e si era accucciato sotto il corrimano della scaletta. La porticina dietro di lui sbatteva per il vento.
« Ben arrivato! » Il maiale aprì le zampe e indicò l'unica sedia vuota.
« Finalmente.»
Il matto prese a cantare.
« No ! La tua voce ! Basta ! » strillò l'ometto mettendosi due dita nelle orecchie.
Ma lui non smetteva.
« Senti, matto... » Si alzò sulle sue gambe corte, camminò verso la scaletta.
Nunù fece un balzo che lo portò quasi sul tetto.
« Didier » disse il sindaco.
« Solo un po' di silenzio. E che venga tra noi, solo questo chiedo » e intanto il suo peso cigolava sul ferro degli scalini.
Il matto si strinse la barba e la sua canzone ricominciò sottovoce.
« Nunù, vieni » disse la zoppa.
Lui la fissò.
« Nunù » ripeté lei.
Così il matto smise di cantare. Tornò dentro e quando vide l'ometto ancora lì vicino scosse la testa.
« Didier! » lo richiamò il maiale.
« Non ti faccio niente, matto » disse l'ometto e tornò al tavolo marcio.
« Vieni, Nunù » lo invitò lei.
Il matto fece un passo, poi li guardò dall'alto.
Il sindaco lo pregò di raggiungerli.
Allora lui camminò fino al centro della stanza. Poi, quando fu più vicino, corse alla sedia vuota ma non si sedette, rimase in piedi. Restò premuto al muro, accanto a lei. Di fronte quei quattro occhi e tutte quelle tele che lo spiavano preoccupate.
« Nunù, giusto? » chiese il sindaco.
Il matto annuì.
« Nunù che viveva vicino al bosco e che arrivò a R. dopo che suo padre, matto anche lui... Fu Jerome a salvarti, non è vero? Ti rinchiuse nella stanzetta della casa rossa assieme alla zoppa. Ma non fu lui a salvarti davvero. E stato il Consiglio a decidere... Poi mio padre Saliou ti ha graziato un'altra volta portandoti nella torre. »
« Il maestro delle campane ha portato Nunù nella torre! » esclamò lui.
« Furono mio padre e il Consiglio a decidere... Loro e non... »
« Il maestro delle campane! »
Didier batté un pugno sul tavolo, fortissimo. « Ingrati... Come la moglie dell'orologiaio, ingrati come tuo padre, zoppa... portate con voi la disgrazia e pretendete... » Le guance erano in fiamme e il collo batteva come se il cuore fosse andato lì dentro.
Il sindaco fece un lungo sospiro, la sua voce era quasi spenta: « Due giorni ancora e il volere del Signore sarà compiuto...» Si asciugò il sudore della fronte con il dorso della mano. «... R. riavrà il suo lustro...» Tossì e sputò. « Pensa, zoppa, una valle nella paura perché un'ombra, un mostro che si aggira nei boschi ha strappato dalla vita una bambina. L'ha portata via e forse la tiene legata e nascosta in qualche anfratto del monte e sta per...» Guardò l'ometto e continuò. « Come una maledizione, il terrore cresce dovunque ci siano bambini... E chi sarà a liberarli da questa maledizione... » sussurrò e avvicinò la testa al tavolo. « I rossi? La gendarmeria della città? No, zoppa... Saranno i blu di R. a trovare la piccola Colette e a ridar pace alla gente...» Respirò. « Per questo voi adesso... » Si portò una mano sulla fronte e poi giù fino alla nuca. « Voi collaborerete... Due giorni, due giorni ancora dove voi... non vedrete... non guarderete... Quanto è vero Iddio... due giorni solo... » Aveva gli occhi socchiusi e la saliva gocciolò sul tavolo.
« Mancano due giorni. » L'ometto si strofinava le mani come a volersi consumare la pelle sulle nocche. Se le schiacciava una contro l'altra quelle mani, senza peli, la carne rosa e morbida. All'improvviso si tirò su dalla sedia e la zoppa lo seguì con lo sguardo. Didier si mise a camminare in lungo e in largo, le braccia intrecciate dietro la schiena. Infilò la testa nel foro, poi raggiunse il mucchio di libri e prese il primo della pila più alta.
Poline si voltò verso il matto che non si era accorto di niente. Lui teneva gli occhi bassi intanto che il sindaco diceva che quella era la strada indicatagli una notte da Dio. Lo diceva anche a lei, ma la zoppa era di nuovo ferma su quell'uomo in miniatura che ogni tanto si tirava su i pantaloni larghi e si massaggiava il mento glabro. Didier toccava le cose e rimaneva a pensare un istante, poi riprendeva a camminare con le labbra curve e tutte storte. Sfiorò le leve del grande orologio, poi osservò il letto sconvolto del matto e con l'espressione schifata venne via da lì. Raggiunse il tavolo marcio, ascoltò per un attimo le parole del maiale che non finivano mai. Poi continuò fino alla parete senza pietre, e lì si incantò sulla tela girata contro il muro.
« Tuo padre ti avrebbe chiesto la stessa cosa, la stessa cosa... Non guardare, non ascoltare » disse il sindaco.
Lei annuì, ma non stava a sentire. Prese a tormentarsi il ciondolo tra le dita mentre le mani dell'ometto afferravano la tela e la mettevano sotto la luce della lampada. Così, davanti al disegno che affiorava, le labbra di Didier si aprirono appena, stupite, nel vedere Colette su quel dipinto. Ghignò e guardò la zoppa. Sorrise ancora e venne avanti con il quadro. Lo lasciò contro il muro accanto al tavolo marcio.
« Non è una meraviglia? » disse.
« Aiuto » disse il matto.
« E' mia figlia » fece il sindaco accorgendosi del dipinto. Picchiettò le dita sul pomello del bastone, senza staccarsi dalla tela. Si alzò in piedi e un colpo di tosse rimbombò dal petto in tutta la torre. Respirò forte. Si raschiò la gola, un fiotto di saliva finì contro una pietra. Il collo gli pulsava da un lato, le vene spesse lo rigavano fin sotto il mento. Afferrò il bastone sotto il pomello e, aggrappandoglisi ben stretto, avanzò a fatica. Andò al dipinto e allungò il braccio. Tenne gli occhi socchiusi, con il bastone che tremava non toccava niente, solo sfiorava. « E' bella, è lei » bisbigliava.
« E' meravigliosa, Marcel... »
« E' proprio lei... Non è vero Didier? »
« Si, le somiglia molto. »
« E' Colette, è davvero lei... » sussurrò il sindaco. Poi colpì. Una, due, tre, quattro volte. Con le mani strette a metà del bastone. Calciava, pestava, infilzava senza tregua. Picchiava sul quadro per terra e gli strappi nella tela erano grida acute. Non si fermò, colpiva, colpiva al centro e ai lati e di nuovo al centro, e solo quando il bastone rimase incastrato tra quelle ferite, la tela smise di piangere.
Allora la zoppa scattò in piedi e subito l'ometto le mise una mano sulla spalla e la spinse di nuovo sulla sedia.
« E' davvero mia figlia. » Il sindaco aveva gli occhi senza più il bianco e il viso e la testa erano viola e bruciavano. Si voltò, di nuovo la sua gamba era una furia che picchiava ancora contro il legno della tela e quei brandelli ora saltavano dappertutto e Colette non ebbe più colori. Poi lui smise, le labbra colavano saliva e gli occhi, gli occhi non c'erano più, erano due buchi vuoti. La fissò. « Zoppa... » disse e quasi non si sentiva, il fiato raschiava la gola. «... la polvere dolce dovevano darla a te... non a tuo padre. »
Non rimase che il silenzio. Pesava e avvolgeva la torre come aria nera che non si poteva respirare. E la fiamma del lume, un filo alto e sottile che brillava debole contro le pietre umide.
« Papà » e quella fu l'unica parola che la zoppa emise appena l'ometto e il sindaco se ne furono andati. « Papà. » Solo un soffio. Neanche il matto che le sedeva accanto sul letto lo sentì, le punte delle sue dita stringevano un drappo della camicetta di lei. Lo afferravano come fosse l'unico appiglio per non farla cadere nel vuoto. Nunù si chinò e schiacciò la testa a un fianco di lei. Le spinse piano la fronte addosso e con quella la accarezzò sentendo le ossa appuntite tremare. Allora lasciò il lembo della camicetta e le avvolse le braccia intorno al collo. « Nunù salva la zoppa » le disse.
Poline tenne un braccio abbandonato in grembo, l'altro finiva con un pugno chiuso che sfiorava il petto dove un bottone era slacciato. Lo strisciava appena sul cotone e i suoi occhi erano sbarrati verso i brandelli della tela sulle pietre.
« Nunù salva Poline » ripeté il matto e l'avvinghiò.
Ma lei si alzò in piedi e un gemito le uscì soffocato dalla gola. Rimise le mani del matto a posto, poi camminò attorno al tavolo marcio. Arrivò al muro e si accovacciò. Un attimo e tornò in piedi e poi di nuovo a terra, china sui brandelli di tela sparsi. Li raccolse uno a uno, appoggiandoli sul tavolo marcio. Poi staccò con cura i pezzetti di tela dal legno del telaio e li distese sul ripiano. Ne sfiorava uno, lo spostava, lo avvicinava a un altro e l'immagine di Colette tornava a comporsi.
« La zoppa e il matto vanno a trovare Colette adesso. » Il matto guardò il dipinto che tornava a vivere. Prima il viso, poi il collo e il vestitino segnato di pieghe. La mano della zoppa univa quei pezzetti dove il bastone li aveva feriti, ma gli strappi erano linee dritte che rimanevano tra i colori. Il nero del ripiano rompeva il rosa della pelle, il blu di quegli occhi. Rompeva il giallo e il verde e l'oro.
« Nunù aiuta Poline. » Il matto provava a fare lo stesso ma si bloccò di colpo quando si accorse delle dita della zoppa che tremavano e non toccavano più niente.
« Papà... » E questa volta la torre l'ascoltò. Andò via. Raggiunse il centro della stanza poi si precipitò al foro.
Laggiù non era altro che notte.
Fissò la casa bianca e la vide. Dietro la finestra la solita ombra andava avanti e indietro. La solita ombra che forse aveva sempre saputo di suo padre.
Guardò la scaletta che portava al tetto. Chiuse gli occhi asciutti.
La sua pelle bruciava per l'aria gelida. Intorno la notte era diventata di un blu leggero che dal bosco saliva e diventava azzurro pallido. Adesso dietro quelle cime aguzze c'era la mattina, aspettava i rintocchi del grande orologio restando nascosta ancora per un poco.
La zoppa guardava dove la luce stava per esplodere, dove il cielo era quasi bianco e striato di nuvole. Restò seduta sul muretto nel punto in cui il tetto finiva, i piedi che toccavano gli ultimi coppi, la schiena alla piazza. Teneva le mani sul grembo e là in mezzo stringeva l'orologio d'argento. Lo schiacciava, lo girava e rigirava e con un dito ricalcava le lettere che dicevano « Al decimo primo uomo di R. ».
« Loro... ti hanno addormentato » ripeteva senza voce e i suoi occhi erano come di vetro, sgranati verso il bosco. Rimanevano al verde spento, al giallo appassito e a quei colori che faticavano a bucare l'aria velata della mattina. Poi abbassò lo sguardo alla finestra della casa rossa, coperta dalle persiane in legno. La fissò, cercò di entrare lì dentro ed ecco che all'improvviso si incantò su quella bambina, appoggiata al vetro, con un fianco nascosto a metà dalla tenda. Se ne stava con la testa mezza china e il busto sottile che pendeva da una parte. I capelli corvini legati da uno chignon alto e ordinato, il vestitine coperto da una mantella rossa. Teneva una mano davanti al petto, le copriva il viso ogni volta che qualcuno passava in piazza e si accorgeva di lei. Un'ombra la raggiunse da dietro e la bambina si voltò appena ascoltò quei passi. L'ombra di un uomo elegante, con gli occhiali senza stanghette, che si lisciava i baffi lunghissimi arrotolati su se stessi. Con due dita continuò a stirare quello di destra e con l'altra mano cinse la vita della bambina. La sollevò e lei cominciò a volare. La baciò sulla nuca e un po' la cullava, le parlava all'orecchio. La bambina sorrise e intanto prese un orologio d'argento dalla tasca del panciotto dell'uomo. Lo portò davanti alla faccia, poi guardò un attimo la torre, poco sopra la zoppa. Ma subito si voltò perché l'uomo la baciava sulla guancia e la faceva oscillare sempre più. Ora la bambina era scossa a destra, a sinistra e rideva e rideva. Ballava con gli occhi socchiusi e l'uomo era il suo cavaliere che la conduceva. Lui fece per inclinarla all'indietro e la bambina gli si aggrappò al collo e la gonna di fiori si sollevò fino alle ginocchia. L'uomo si aggiustò gli occhiali. Il suo sorriso si allargava fino alle orecchie mentre la mano di lei provava a coprirsi con la stoffa le gambe nude, la gamba diversa. Ci riuscì quando lui la raddrizzò e subito il vestitino scese fin sotto l'unico zoccolo di legno che rischiava di cadere.
« Ti hanno addormentato con la polvere dolce » disse la zoppa. Chiuse gli occhi. E
la finestra della casa rossa non c'era più e neanche quella bambina e quell'uomo che ridevano. Alzò la gamba debole contro la pancia e così raggomitolata si raccolse più che potè. Il petto, la schiena, le braccia tremarono. Appoggiò il piede forte sul muretto, accanto a quello curvo. Si sedette in cima al cornicione della torre e accarezzò il vuoto con le dita, con la mano. Affondava il braccio in quell'aria leggera che disegnava cerchi grandissimi e invisibili. Immerse anche l'altro di braccio e il vento le dipingeva la pelle di colori che solo lei poteva vedere. Azzurro, verde e rosso e rosa. Tutti sulla sua pelle che diventava tetto, animale e albero del bosco, vestito e persona. Lei adesso era il mare della grande città e il grigio delle pietre, era il rosso della barba del matto e l'argento dell'orologio. Il vuoto la colorava, la chiamava. E lei ascoltava quella voce che aveva sentito per tutta la notte, che ancora diceva di seguirla, di essere solo colori sparsi nel vento. La voce del vuoto, che l'avrebbe portata via dalla polvere dolce e dal paese, dalle finestre, e l'avrebbe fatta essere senza paura. Così la gamba forte scavalcò il muretto, quella debole rimase ferma. Le mani abbracciavano il vento e adesso anche il piede curvo si preparò a spingerla verso la piazza.
Ma non lo fece. Si ritrasse perché laggiù la porta della casa bianca si aprì e Pierre uscì.
Poline si nascose dietro il muretto.
Il gendarme veniva avanti, si bloccò poco prima del portone, la schiena dritta come fosse all'Arco. Si tolse il cappello dalla fronte, poi si girò alla casa bianca e fece un segno. Subito la bottegaia corse fuori, camminò ai lati della piazza, attraversò la via delle botteghe. E quando fu davanti alla torre annuì a Pierre.
Allora il legno cigolò.
Poline rimase schiacciata alle pietre gelide, accucciata dove il vento non la toccava più. Aspettò con gli occhi un po' alla campana, un po' alla porticina socchiusa. Poi sentì il ferro della scaletta stridere, allora si sporse al vuoto che non aveva mai smesso di chiamarla. Guardò Pierre in basso che stava sull'attenti, la faccia a destra e a, sinistra.
In quel momento la porticina si spalancò.
« Poline! »
La zoppa non guardò Marie.
« Poline. » Corse da lei. « Non volevo che tu lo sapessi. Ieri notte sono venuti in casa e ci hanno raccontato che te l'avevano detto e io... Non avrebbe fatto differenza, conoscere la verità sulla morte di tuo padre, non l'avrebbe fatta! »
Poline non disse nulla, si nascose il viso tra le dita.
« Decisero nella notte, dopo che quel giorno vi videro fuori ancora una volta.... Poline, tuo padre sapeva cosa voleva dire andare contro R., lo sapeva... Ma continuò lo stesso. » Si abbassò a lei: « Troppo, eravate troppo per i loro occhi addormentati...» Marie lo disse in un soffio. «... Così presero la decisione.» Le accarezzò le guance arrossate, le avvolse la testa tra le braccia. «Non lo dissero a nessuno, lo fecero e basta. » Si sedette accanto a lei. Le appoggiò la nuca sul suo petto, poi la coprì con la mantella. E il corpo di lei tremò più forte, così la bottegaia le strofinò le mani sulla pelle fredda. « Me lo confidò Bulbon. Mi disse della polvere dolce nel vino, mi raccontò di lui. Mi svelò la Decisione presa in una notte. »
La luce del giorno salì, bucò quelle cime. Un raggio si stese sopra la campana, la fece brillare di un giallo opaco.
«Conoscere la verità avrebbe fatto solo più male! » L'abbracciò e i capelli d'argento si mischiarono a quelli neri di lei. Le guardò gli occhi che erano arrossati, grandi.
« Il paese sapeva? » Un rantolo uscì con quelle parole.
« Col tempo seppe. E tutti pregammo per tuo padre. »
« Mia madre... »
Marie la strinse di nuovo.
« Mia madre fece parte di quella Decisione? »
Solo il vento a risponderle, che frusciava tra le sbarre della campana e dentro i cunicoli delle pietre.
« Ne fece parte? » Sentì Marie che piangeva, da dietro scuoteva la testa.
« Lei non poté opporsi.» La bottegaia si calmò di colpo e cominciò a bisbigliare.
« Perché non li hai ascoltati, Poline? Perché incontrare Colette? Perché? » Le parole erano rotte dal respiro e dai gemiti.
« L'orologiaio » sussurrò la zoppa. « Lui sapeva?»
« Glielo dissi io, qualche tempo dopo. Gustave fece di tutto per tenerti lontana dalla verità, era certo che se avessi saputo loro avrebbero dato la polvere dolce anche a te. Sentiva i demoni del passato, sarebbe morto piuttosto che perdere un altro amore per via della polvere dolce. »
« Un altro... amore? »
« Poline, Gustave un tempo era nel Consiglio, tuo nonno si fidava solo di lui e di Padre Carl. Da giovane ebbe un figlio da Claudine, la sua sposa, un figlio sfortunato. Fu lui stesso ad addormentarlo. Gli diede la polvere dolce. La notte stessa Claudine se ne andò e non è più tornata nemmeno a pregare i suoi morti. »
« Da loro che non hanno misericordia» si disse la zoppa.
« Solo con il tempo Gustave capì ciò che aveva fatto. E non volle più avere niente a che fare con il Consiglio. »
Un uccello gracchiò. Uno di quegli uccelli grossi e neri che da qualche anno avevano iniziato a fa, re il nido sui tetti rovinati di R.
La zoppa chiuse gli occhi.
Marie le prese il viso tra le mani. « Sarà solo per un giorno, poi il Signore ci restituirà il lustro e con il lustro si dimenticheranno di te, Poline, e tutto sarà come prima. » Le accarezzò la fronte. « Solo un giorno, questa sera al tramonto verranno i rossi e sarà per l'ultima volta, perché domani Colette... » Ebbe un fremito che la scosse.
« Il lustro. »
« Si, il lustro, Poline. Tornerà perché questa è la volontà del Signore.... Tra poco sarà tutto finito, per te e Nunù, per tutti noi. »
« Finito? »
« Il buio, la dimenticanza, il silenzio. »
La zoppa si voltò e la guardò. Marie sorrideva, gli occhi bagnati le brillavano.
La bottegaia le sfiorò una guancia, si alzò in piedi e l'aiutò a sollevarsi. Si scostò da lei e fece un passo verso la piazza, salutò Pierre. «Devo andare, devo andare subito, Colette sta per tornare nella torre. »
Adesso l'aria con i suoi cerchi grandissimi non c'era più. E neanche il vuoto che la chiamava in quel vento di colori.
Marie fece per prenderle una mano ma lei la nascose dietro la schiena. « Solo un giorno, vedrai, Poline. »
Insieme si voltarono alla porticina. Il matto era là, immobile come una delle pietre, i pugni stretti.
La bottegaia corse da lui. « Un giorno, Nunù, e sarà tutto finito. » Gli si buttò al collo.
Rientrarono.
Poline no. Lei restò ad ascoltare il bosco. Poi, prima di raggiungere la scaletta, si fermò alla campana. La sua banda, silenziosa, tutta coperta di luce leggera.
Quella sera, al tramonto, Nunù le guardò ancora una volta gli occhi per tutto il giorno vuoti. Brillavano appena in quel viso smunto e coperto di spigoli grigi, con la bocca che era due righe di pelle alzata e secca. « Poline » la chiamava il matto. Le stava accanto, seduto sul letto, mentre lei fissava una pietra qualunque a terra.
« Poline » le diceva. Un po' la scuoteva con le dita che stavano attente a non toccarle la pelle. « Ora la zoppa piange » sussurrava lui e con la testa si allungava per starle di fronte. « Ora piange, piange e dopo sta bene. » Le punzecchiava il lembo della camicetta.
Ma la zoppa non diceva nulla. Dei sospiri le soffiavano dal naso e quelli erano la sua unica voce.
Dalla camera chiusa suonò la musica.
« Il pirata tra poco va via e non torna più. Il matto e la zoppa vanno a salutare il pirata » disse lui. « La zoppa sorride a Nunù adesso. »
La mano di lei si sollevò, diceva di lasciarla stare.
« Il pirata non torna più. » Questa volta le braccia di lui si alzarono e le caddero addosso. Poi Nunù tornò a guardarla.
E in un battito quegli occhi si destarono, bagnati. Si coprirono di lacrime e cominciarono a chiudersi, a riaprirsi, vivi,
E quando là fuori arrivarono le voci dei rossi, le sue guance erano rigate a metà.